In principio era il frammento, ricostruito in pericolose unità senza tempo né luogo. Émile Benveniste diceva che la parte più importante del discorso sono i ma, i perché, i quando; con le parole di Barthes: les parties les plus vivantes de la phrase, les relations; senza di loro il discorso cadrebbe a pezzi e non saprebbe più ritrovare la sua unità. Da qui si muove l’opera di Orith Youdovich, dalla creazione di una realtà che dipende attraverso mille fili dalle immagini prodotte, che rappresentano comunque una totalità in se stessa conclusa, un microcosmo indipendente da qualsiasi elemento esterno. Il celato, l’indefinito, persino l’a-sistematico è ciò che è racchiuso nello stesso termine di Oscurità: semplicemente qualcosa che non conosciamo, ma che potremmo conoscere ciascuno in maniera distinta e mai uguale.
Il luogo, il frammento e la memoria Dal tema centrale si declinano così i tre soggetti, elementi chiave del discorso e del percorso della mostra: frammento, luogo e memoria. Sono posti senza articolo perché essi stessi sono da prendere come concetti, fenomeni ad ampio respiro, percezioni da cui trarre significato. Non si tratta però di un’oscurità delle immagini bensì di un’oscurità concettuale, di pensiero, dello stesso bianco e nero delle fotografie. Il nero, è l’assenza totale di tutte le vibrazioni contenute nella luce, il bianco la totale presenza di tutti gli elementi vibratori. Bianco e nero sono così concetti[1], da decifrare e codificare. In piena luce si nasconde l’unità dell’opera che occulta i frammenti di cui è composta e che solo l’autore sa riconoscere. Frammenti celati, taciuti, sono tracce inquietanti, come le rovine. Quest’ultime appaiono nelle immagini come opere autosufficienti, comunicano con lo spettatore, in quel gioco di fermento del pensiero continuo e proprio dell’incompiutezza teorizzata da Friedrich Schlegel e da Novalis.
Tempo puro Ed ecco chiaro che “un edificio non può essere considerato al massimo del suo splendore sinché non siano trascorsi quattro o cinque secoli […] noi non abbiamo nessun diritto di toccarli, non sono nostri. Essi appartengono in parte a coloro che li hanno costruiti e in parte a tutte le generazioni che ci seguiranno”[2]. John Ruskin esaltava la “sublimità delle crepe o delle fratture” come le rovine che appaiono nell’opera della fotografa, che si avvicinano ad una bellezza inspiegata: “alla bellezza come l’ha voluta il cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società, si aggiunge una bellezza involontaria associata ai casi della Storia”[3]. Dal paesaggio essenziale al paesaggio sopraffatto dall’elemento naturale, l’immaginazione prende il passo dello spettatore e ci conduce come in Viaggio in Italia di Rossellini (1954) ad osservare il passato, o ciò che ne resta, con lo stupore attonito di una Catherine Joyce (Ingrid Bergman). Come per la protagonista di Rossellini, l’impressione fugace e l’occhiata molteplice diventano atemporali: la rovina si accosta al ricordo in cui “ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. È un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che talvolta l’arte riesce a ritrovare”[4].
L’anima del luogo Nelle immagini di Youdovich si ritrova quel senso dell’individualità del luogo, delle sue specificità care a James Hillman[5]: quell’intima peculiarità che è definita l’anima del luogo. Un luogo in dissolvimento, con una temporalità sovra-momentanea, che evapora, sfuma, dove il movimento scorre infinitamente “a vuoto” e la memoria opera attraverso un focus interiore perché è inscritta nel medesimo luogo. L’accumulo delle macerie, la natura che prende il sopravvento, gli spazi sconfinati delle fotografie hanno un’unica voce, che è quella del silenzio. Se è vero che per riconoscere le caratteristiche di un luogo bisogna eliminare il frastuono, così le immagini di Youdovich sono dense di questo silenzio estremamente percettibile dove lo scenario diventa citazione della memoria e il paesaggio si proietta sull’essere umano che appare alla fine del percorso, in maniera quasi impercettibile. I luoghi di Youdovich ci affascinano perché ci somigliano. Somigliano al nostro essere caduchi, alla nostra mortalità, alla sete dei nostri attimi di felicità[6]. Ciò che è frammentario è in fondo terreno umano.
NOTE
[1] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 52.
[2] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Londra 1849. ed. cons., New York, s. d., p. 175. Trad. Chiara Micol Schiona.
[3] Marguerite Yourcenar, Il Tempo, grande scultore, Giulio Einaudi, Torino 1994, p. 51-52.
[4] Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 38.
[5] Ci si riferisce a James Hillman, L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano 2004.
[6] Ci si riferisce a Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere, Bompiani, Milano 2010, p. 82.
© CultFrame 04/2012
© Chiara Micol Schiona, curatrice della mostra Oscurità – Luogo Frammento Memoria, Roma, 12 aprile – 30 maggio 2012
INFORMAZIONI
Orith Youdovich. Oscurità – luogo frammento memoria / A cura di Chiara Micol Schiona
Dal 12 aprile al 30 maggio 2012
Inaugurazione: giovedì 12 aprile 2012, ore 19.00-22.00
Galleria Gallerati / Via Apuania 55, Roma / Telefono: 06.44258243 – Mob. 347.7900049 / info@galleriagallerati.it
Orario: lunedì – venerdì 17.00 – 19.00 / sabato, domenica e fuori orario: su appuntamento / chiuso dal 3 al 6 maggio 2012
Mezzi pubblici: bus: 61, 62, 93, 310; metro: linea B, fermata Bologna (da P.zza Bologna: 400 m lungo Via Livorno o Via M.di Lando)
SUL WEB
Il sito di Orith Youdovich