Nel caso di Israele appare del tutto appropriato affermare come la produzione artistica del Paese rispecchi in modo inequivocabile la complessità di un popolo la cui essenza è rintracciabile proprio nell’articolazione di un pensiero creativo (individuale e collettivo) denso di sfumature di derivazione multiculturale e caratterizzato da una forte tendenza alla libertà espressiva. Per quel che riguarda la letteratura e il cinema questo aspetto è ormai conclamato a livello internazionale, visto il successo che scrittori come Abraham B. Yehoshua, David Grossman e Amos Oz hanno avuto anche nel nostro paese e grazie ai significativi premi che registi cinematografici e attori si sono aggiudicati negli ultimi dieci anni in giro per il mondo.
Per quel che riguarda l’arte contemporanea (e in particolare la videoarte e la fotografia) il discorso non è differente. Il padiglione di Israele presso la Biennale di Venezia presenta quasi sempre (con poche eccezioni, dunque) artisti di sicuro interesse come avvenuto nel 1999 con Philip Rantzer e Simcha Shirman, nel 2003 con Michal Rovner, nel 2005 con Guy Ben-Ner, nel 2007 con Yehudit Sasportas, nel 2011 con Sigalit Landau. Nel 2009 nell’ambito della 45a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, in collaborazione con The Center for Contemporary Art di Tel Aviv, fu presentata (nell’ambito della Retrospettiva sul Cinema Israeliano Contemporaneo) un’ampia selezione di opere visuali di autori come Boaz Arad, Yael Bartana, il già citato Guy Ben-Ner, Dana Levy e Doron Solomons.
Il movimento artistico-visivo israeliano è dunque ben noto in Italia, almeno agli addetti ai lavori. Nonostante ciò appare necessario effettuare un monitoraggio costante che consenta di poter portare alla luce l’effervescente produzione visuale di Israele, caratterizzata dalla nascita di nuovi talenti che si trovano, in modo inevitabile, a doversi confrontare, come ci ha insegnato Chris Marker nel suo capolavoro Description d’una combat (1960), con una terra ricca di segni (smalim), di significanti. Tale fenomeno è possibile anche perché il sistema didattico israeliano punta con molta decisione alla creazione e al sostegno di accademie artistiche di altà qualità in grado di formare, di generazione in generazione, gli sguardi di autori curiosi e allo stesso tempo attenti al presente e alla questione del memoria, senza lasciare da parte i principi creativi di modernità.
Uno dei poli di formazione più importanti del Paese è senza dubbio quello rappresentato da HaMidrasha School of Art, accademia d’arte collocata all’interno del Beit Berl College di Kfar Saba. Ebbene, proprio da questa realtà provengono le opere che sono state selezionate per la mostra Time and Half, inaugurata il 4 aprile 2012 presso il MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza di Roma.
L’esposizione, curata da Doron Rabina, Ben Hagari e Giorgia Calò, è stata concepita attraverso un meccanismo di integrazione espressiva basato sulla commistione ragionata di opere di docenti e allievi di HaMidrasha School of Art. Il risultato curatoriale è stato stimolante poiché grazie a questa scelta è stato possibile gettare uno sguardo consapevole nell’ambito della produzione videoartistica israeliana degli ultimi anni. Ne è venuto fuori un quadro culturale grazie al quale il fruitore può comprendere come la videoarte in Israele si muova su piani diversi: quello metaforico, quello della riflessione individuale, quello puramente linguistico, quello socio-politico, quello relativo alla situazione di un’intero popolo e quello concentrato sulle questione spazio-temporali della narrazione visuale.
In Invert (2010), Ben Hagari compie un’operazione dalle connotazioni fortemente teoriche e dai risvolti filosofici. Elabora, infatti, un racconto basato sul concetto di “capovolgimento” e sulla questione della “complementarità” degli aspetti cromatici. L’autore edifica una realtà ribaltata, dunque sembra guardare il mondo da una prospettiva “altra” che gli consente, pur all’interno di una struttura visionaria e dai tratti onirici, di effettuare un ragionamento sul reale di estrema profondità.
In Salit (2012), Tzion Abraham-Hazan utilizza il sale da cucina come fattore in grado di scatenare un processo chimico capace, con il semplice contatto, di far “sgorgare delle lacrime” dalla scultura in ferro di Menashe Kadishman che si trova davanti al Tel Aviv Museum of Art. Tale scultura raffigura l’agnello sacrificale della Bibbia (storia di Isacco). Questo “elemento piangente” viene collegato tramite un raccordo spaziale-metaforico, alla Torre di Marganith che si trova all’interno di un centro militare situato proprio di fronte al Museo. Con quest’opera, Hazan ha realizzato un testo audiovisivo di notevole spessore: ha costruito, infatti, un dialogo tra un’opera d’arte e un luogo dello Stato che si manifesta attraverso un complesso “gioco di sguardi” che allude alla condizione di un Paese che a sua volta riflette, come uno specchio, su una realtà spesso contraddittoria e sofferente.
Con Kings of Israel (2009), Boaz Arad stabilisce una connessione intima tra la storia della sua famiglia e la sua posizione umana, sociale e politica. Arad smonta una pistola appartenuta al nonno e al padre (entrambi con un passato nei servizi dei sicurezza) e facendo ciò evoca il suo disagio interiore, disagio che si colloca drammaticamente tra il suo destino soggettivo e quello collettivo di Israele.
Lior Shvil con Kosher Butcher – The Confession (2010), trasporta il visitatore in una dimensione allegorica che tratta il tema degli stereotipi e dei terribili luoghi comuni di stampo antisemita che purtroppo ancora oggi emergono in Europa con sempre maggiore frequenza, mentre Oscar Abosh con Untitled (2006) narra la difficile condizione di alcuni lavoratori palestinesi che attendono seduti su un muretto di una strada di Gerusalemme.
Gli aspetti più strettamente teorici del “fare videoarte” sono invece al centro dell’elaborazione di Guy Ben-Ner intitolata Second Nature (2008), nella quale si fa riferimento alla favola di Esopo Il corvo e la volpe. In questo caso, l’autore israeliano effettua un acuto ragionamento sulla relazione stratificata che sussiste tra idea di finzione e desiderio di rappresentazione della realtà. Il racconto dell’interazione tra esseri umani e regno animale è infatti intrecciato alla rivelazione del dispositivo audiovisivo. Second Nature possiede, dunque, tutte le caratteristiche di un’opera-saggio grazie alla quale Guy Ben-Ner ragiona non solo sui contenuti universali della favola di Esopo ma anche sul valore della comunicazione audiovisiva nel mondo contemporaneo.
Completano il programma Poetry Meant to Kill (2010) di Nadav Bin-Nun, Volcano Demo (2008) di Tom Pnini, Oasis (2008) di Ofri Cnaani e Fried Sweat (2008) di Mika Rottenberg.
© CultFrame 04/2012
IMMAGINI
Ben Hagari. Still dal video Invert, 2010
Lior Shvil. Still dal video In Whatever Time, 2010
INFORMAZIONI
Time and a Half. HaMidrasha School of Art. Beit Berl College, Israel – Videoarte israeliana / A cura di: Doron Rabina, Bene Hagari, Giorgia Calò
Artisti: Oscar Abosh, Tzion Abraham-Hazan, Boaz Arad, Guy Ben-Ner, Nadav Bin-Nun, Ofri Cnaani, Ben Hagari, Tom Pnini, Mika Rottenberg, Lior Shvil
Dal 4 al 27 aprile 2012
MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Sapienza Università di Roma / Piazzale Aldo Moro 5 / Telefono: 06.49910653
Orario: lunedì – venerdì 15.00 – 19.00
Biglietto: Ingresso libero
LINK
MLAC, Roma
HaMidrasha School of Art, Beit Berl College, Israel