L’Hangar Bicocca si colloca di diritto tra i centri di Milano dedicati alle arti contemporanee più interessanti. Situato in una zona periferica a Nord, la Bicocca, recentemente trasformata nel nuovo distretto universitario cittadino, con i suoi i 17.000 mq l’ex complesso industriale Ansaldo-Breda in otto anni di attività si è ritagliato un’identità piuttosto chiara all’interno della scena espositiva. Dopo un importante passaggio di gestione e alcuni mesi di sospensione delle attività, la gestione del luogo è stata riconcepita e lo spazio riaperto con una promettente doppia esposizione: Shadow Play 2002 – 2012 di Hans-Peter Feldmann e NON NON NON del duo Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.
Entrambe a cura di Chiara Bertola – la mostra di Gianikian e Lucchi co-curata insieme ad Andrea Lissoni – le due esposizioni colpiscono immediatamente per l’intelligente interazione con la monumentale installazione dei Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer. L’opera dell’artista tedesco, che ormai “abita” il ventre dell’Hangar, è divenuta a tutti gli effetti una sorta di cuore pulsante dello spazio: rivederla nel tempo provoca sempre un turbamento, con la sua trama di simbologie alchemiche, una sorta di miraggio che appare nel buio teatrale degli enormi spazi silenziosi dell’Hangar. Residuo apocalittico, monito, monumento alla fine della storia e ai suoi orrori e ponte verso un possibile futuro post-civile, i Sette Palazzi sono introdotti dal teatro delle ombre di Feldmann, un’installazione riconcepita specificamente, presentata originariamente allo Sprengel Museum di Hannover e poi esposta in numerosi siti internazionali.
Su un lungo tavolo l’artista dispiega oggetti eterogenei, cianfrusaglie, giocattoli, montati su supporti rotanti. Sulla parete posta dietro il tavolo, vengono proiettate le ombre di queste figure. Una sorta di carillon ma anche esperimento visivo che integra installazione e cinema dei primordi, evocando memorie soggettive e infinite, possibili variazioni narrative. Il lavoro solitamente dissacrante di Feldmann appare qui più raccolto e delicato, rivelando una lato poetico che accompagna lo spettatore con naturalezza verso l’esposizione di Gianikian e Lucchi. Il percorso della retrospettiva si apre con una raccolta di disegni, schizzi, appunti liberi dedicati ai temi centrali dell’opera dei due cineasti e artisti, ovvero la riflessione sulla guerra, sui conflitti culturali, ai processi legati all’antropizzazione dei luoghi e all’idea dell’archivio. Definire i confini della ricerca dei due artisti è in ogni caso arduo, data la ricchezza dei contenuti e l’inesausto lavoro di sperimentazione portato avanti lungo quarant’anni di sodalizio, artistico e umano.
Yervant Gianikian, di origini armene, nasce come architetto, mentre Angela Ricci Lucchi è pittrice. Insieme iniziano a lavorare negli anni ’70, periodo durante il quale raccolgono un immediato consenso da parte del pubblico internazionale, esponendo in alcuni tra i più rilevanti festival cinematografici internazionali. Nemo propheta in patria, malgrado la straordinaria produzione elaborata in decenni di attività, sino ad oggi i due artisti sono stati incomprensibilmente trascurati in Italia, dove sono state realizzate ben poche retrospettive su di loro, anche se è doveroso ricordare il lavoro puntuale realizzato dal Mart di Rovereto che nel 2008 commissionò ed espose il Trittico del Novecento, prima della mostra realizzata dal Moma di New York, nel 2009. Bertola e Lissoni hanno avuto il merito di colmare questa lacuna, realizzando una splendida esposizione sulla loro opera, tutt’altro che oleografica.
Lasciato il gabinetto delle grafiche dove sono raccolti i lievi, ironici eppure taglienti disegni e gli acquerelli, dinanzi allo spettatore si apre uno spazio installativo dove sono collocati tre schermi, sui quali scorrono le immagini de La marcia dell’uomo, opera presentata alla 49esima Biennale di Venezia. Il primo film è realizzato partendo da filmati di fine ‘800, il secondo con reperti dei primi del ‘900 e il terzo degli anni ’60. Si tratta di oggetti filmici costruiti utilizzando la “camera analitica”, uno strumento ideato dai due artisti che permette l’utilizzo e la proiezione di pellicole di repertorio, anche estremamente datate. I film, costituiti da immagini documentarie girate nei paesi del Terzo Mondo, subiscono un radicale mutamento in oggetti filmici, manipolati esteticamente tanto da far emergere con forza la natura profondamente ambigua dell’immagine reportagistica.
L’ipnotica lentezza dei fotogrammi, in cui deflagra l’assurdità di una cultura che si professa civile e distrugge sistematicamente ogni forma di alterità con cui viene a contatto, trova una eco ideale nell’incombente copresenza dei palazzi di Kiefer, che sembrano assistere e vegliare sulle macerie della Storia. In fondo alla navata, la sala di proiezione del Cubo accoglie gli spettatori, con la presentazione di altri cinque film: Frammenti Elettrici, Visions du désert, Trittico del Novecento, Terrae Nullius, Topografie. Si tratta di una rara e preziosa occasione per assistere alla proiezione di queste opere, altrimenti non facilmente recuperabili, oltre che un esempio di come la videoarte, se adeguatamente proposta e installata, possa essere impattante sullo spettatore. Il flusso delle immagini – Frammenti e il Trittico sono composti da multiproiezioni – costituisce un unico corpus emotivamente molto coinvolgente, che porta ulteriormente avanti l’analisi sulla criticità dell’immagine documentaria e sulla memoria. Accostando fotogrammi del Vietnam, delle popolazioni Maori australiane, topografie e sterminio dei Rom, frammenti della Seconda Guerra mondiale, si viene travolti da un flusso schiacciante e struggente, dove il “noi” e l’altro” perdono definitivamente di senso e dove l’immagine è destinata inesorabilmente a assumersi la responsabilità di divenire veicolo di crisi del reale, più che possibile portatrice di verità.
Colpisce inoltre la sensazione di disvelamento che questi oggetti filmici attuano sullo spettatore: nel loro diacronismo, questi oggetti utilizzano dettagli della storia, reperti, per ricomporre un quadro generale che possieda nuove, impreviste coordinate, in totale contrapposizione alla cronaca ufficiale e alla pretesa di oggettività che essa porta con sé. Un pensiero che li rende profondamente contemporanei, così come osservato in un puntuale articolo da Marco Belpoliti apparso su Doppiozero, una problematicità che andrebbe riletta alla luce delle riflessioni di Georges Didi-Huberman nella Storia dell’arte e anacronismo delle immagini e che trova ideale compendio in Variazione (1996), un acquerello della serie I Cineasti, che apre la mostra: “Non politico, non estetico, non educativo, non progressivo, non cooperativo, non etico, non coerente: contemporaneo”.
© CultFrame 05/2012
INFORMAZIONI
NON NON NON – Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi / a cura di Andrea Lissoni con la collaborazione di Chiara Bertola
Dal 12 aprile al 10 giugno 2012
Fondazione HangarBicocca / Via Chiese 2, Milano / Telefono: 02.66111573 / info@hangarbicocca.org
Orario: giovedì – domenica 11.00 – 23.00 / chiuso lunedì – mercoledì / Ingresso libero
SUL WEB
Hangar Bicocca, Milano