Fotografie di cani, scatole di legno, ritratti, vasetti di vetro, attrezzi comuni, una giraffa, filmati muti dove viene eseguita una coreografia: non è facile per chi sia approccia al lavoro di Elad Lassry esposto al PAC di Milano entrare in un mondo apparentemente senza gerarchie, dove le cose convivono e sembrano sottrarsi all’entropia più per una forma di misteriosa corrispondenza estetico – decorativa che per una necessità di racconto.
Lassry, artista israeliano residente stabilmente a Los Angeles, chiamato per la prima volta ad un’importante retrospettiva italiana al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano dal curatore Alessandro Rabottini, è un autore non facilmente inquadrabile. La sua riflessione sull’immagine sembra attestarsi primariamente su un piano speculativo, e da lì condensarsi nelle sue opere. Una matrice concettuale spiccata, che si delinea chiaramente nelle importanti esposizioni culminate nella mostra al Whitney Museum di New York e alla recente Biennale di Venezia.
Al centro della retrospettiva milanese, una serie di opere realizzate con media differenti che hanno come carattere comune un’ambiguità dichiarata. Immagini recuperate cui viene data una seconda chance di vita, ready-made misteriosi in precario equilibrio tra il criptico e l’ammiccante, in definitiva sempre sfuggenti allo spettatore che si propone di afferrarli. Una complessità non risolta, respingente, un lavoro che si potrebbe definire a tratti impermeabile. Non ci sono punti fermi cui aggrapparsi, né verità disvelate: l’artista, con un certo cinismo, gioca a sedurre lo spettatore e abbandonarlo in un mare di immagini dove il senso si perde, dove niente è aderente al significato originario dell’immagine stessa.
Dal punto di vista della riflessione teorica, è indubbio che Lassry giochi puntando alto, lavorando sullo statuto, sulla criticità delle immagini. La commistione di media sottolinea una sorta di “noncuranza” con cui l’autore si approccia ai materiali visivi, i quali vengono scelti e privati di ogni riferimento che possa ricondurre alla loro funzione primaria, siano esse state fotografie di moda o pubblicitarie. Ciò che rimane è il corpo nudo dell’immagine, una forma di doppio anonimo, da investire di un nuovo significato. Lo scarto che avviene, si compie nell’atto della riproduzione e di un “secondo battesimo”. Lassry non concede un significato univoco da fruire, né palesa contenuti. E’ come se tutto fosse raggelato in una superficie impenetrabile, di cui è data solo l’evidenza. Il mistero scostante di queste opere si racchiude in questa esteriorizzazione assoluta, quasi fossero uno specchio riflettente. Lassry tramuta le sue immagini in oggetti, sottolineando la volontà di svuotarle, attraverso la tecnica dell’assemblaggio e del collage. L’autore le definisce come “sculture che sono accidentalmente fotografie” (sculptures that happens to be photographs) ma la definizione non sembra risolverne definitivamente la problematicità. Se è vero che la categorizzazione può essere un’operazione sterile, in questo caso – dove le coordinate entro cui orientarsi sono così labili – ci si può permettere di definirle più come oggetti d’arte in senso lato che elementi affini alla scultura o alla fotografia, oggetti dalla natura studiatamente controversa.
La scelta allestitiva e curatoriale evidenzia anch’essa una deliberata volontà di mettere in scena l’opera, con estrema attenzione al dettaglio. Le opere hanno formati ridotti, omogenei, puntellano lo spazio in maniera rigorosa e le proiezioni dei film in 16 mm sono poste rispettando orientamento e collocazione delle opere fotografiche. Elementi questi che denotano un evidente desiderio di costruire una macchina scenica il cui effetto sullo spettatore sia precisamente controllato, lo sguardo indirizzato e in qualche misura costretto, schiacciato dai colori saturi delle campiture e l’esibizione di una perizia tecnica raffinata al limite dello snobismo.
Come sottolinea con puntualità Rabottini, vi è un senso di straniamento che rende l’insieme di queste figure familiari – siano esse appunto fotografie di animali domestici, ritratti al limite del banale, mobili – sottilmente perturbanti. Eppure quell’incrinatura che si percepisce nel reale non deflagra mai, anzi viene cristallizata e congelata.
Il sospetto che molte riflessioni scaturite dopo la visione della mostra siano più frutto dell’esercizio critico dello spettatore, piuttosto che autenticamente appartenenti alle opere dell’artista, è lecito e di fronte all’installazione-omaggio a Anthony Perkins, alle composizioni alimentari pop o ai ritratti, si oscilla tra perplessità e distacco.
Completando il percorso della mostra, rimane appiccicato addosso un senso di algida non appartenenza, come se d’improvviso avessimo guardato una realtà di cui non abbiamo più esperienza, come un oblio o una perdita di memoria temporanea, spiazzante. Una sgradevole sensazione che si acquieta per un attimo posando lo sguardo sui Sette Savi di Fausto Melotti, guardiani silenziosi e lunari che abitano il giardino del museo. Evidenti e misteriosi anch’essi, ma carichi di una sincerità che, nel flusso del contemporaneo più spinto, sembra a tratti smarrirsi inesorabilmente.
© CultFrame 07/2012
IMMAGINI
1 © Elad Lassry, Short Ribbs, Eggs, 2012, courtesy Massimo De Carlo
2 © Elad Lassry, Four Braids (Blue), 2012, courtesy Massimo De Carlo
INFORMAZIONI
Elad Lassry. Verso una nuova immagine / a cura di Alessandro Rabottini
Dal 6 luglio al 16 settembre 2012
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea / Via Palestro 14, Milano / Telefono: 02.88446359/360
Orario: lunedì 14.30 – 19.30 / da martedì a domenica 09.30 – 19.30 / giovedì 09.30 – 22.30 / Ultimo ingresso un’ora prima della
chiusura / 15 agosto 09.30 – 19.30 / Ingresso libero
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PAC, Milano