Il documentario biografico-familiare è territorio espressivo molto difficile da gestire con lucidità e misura. Il pericolo è quello di sfociare nel patetico o nell’esaltazione (autoreferenziale) pura e semplice. E poi perché la vicenda di un soggetto legato all’autore di un film, un familiare appunto, dovrebbe interessare il pubblico cinematografico?
Per rispondere a questa domanda è necessario confrontarsi con il film di Amos Gitai intitolato Lullaby to My Father.
Si tratta di un’opera basata sulla ricerca continua di un equilibrio (forse impossibile da raggiungere) tra ricostruzione, memoria, finzione, emersione di sentimenti individuali, poesia e vena creativa dell’autore. Questo equilibrio così complesso riesce perfettamente ad Amos Gitai che alla figura del padre aveva già dedicato un’articolata mostra (con immagini, documenti e installazioni video) che ha fatto il giro del mondo.
Perché, dunque, girare un documentario su Munio Gitai Weinraub? I motivi possono essere molteplici, e tutti significativi. Ma ciò che appare subito evidente è che il padre di Amos Gitai diviene in questo film veicolo comunicativo ideale di alcuni elementi simbolici che hanno a che fare con la storia del popolo ebraico, dello Stato di Israele e con l’evoluzione dell’architettura europea (negli anni ’30).
Fuggito dalla persecuzione nazista nei riguardi degli ebrei, Munio arriva in Palestina (sotto mandato britannico) e porta con sè la cultura che aveva rappresentato la sua formazione in Germania. Aveva studiato con Kandinskij e con Gropius ed aveva attivamente partecipato (come allievo) all’elaborazione delle idee che riguardavano il Bauhaus, scuola di architettura che trovò una sua applicazione concreta, in maniera massiccia, proprio in Israele grazie ai numerosi architetti ebrei in fuga dalle atrocità naziste. Proprio a Tel Aviv, oggi, è così possibile ammirare innumerevoli edifici Bauhaus che rendono la metropoli israeliana di grande importanza per chiunque si interessi di architettura.
Amos Gitai costruisce intorno alla drammatica vicenda paterna un mosaico creativo di indiscutibile finezza intellettuale. Le ricostruzioni delle (dis)avventure tedesche del genitore si alternano alla lettura di poesie di Leah Goldberg (poetessa israeliana di origine lituana morta a Gerusalemme nel 1970), così come un sofisticato montaggio di immagini fotografiche serve a scandire un ritmo del racconto composto da interviste di soggetti legati a Munio e improvvise svolte poetiche che trasportano lo spettatore in una diensione lirica di notevole delicatezza.
Gitai riesce a tenere uniti tutti gli aspetti sin qui evidenziati grazie al suo stile potente e riconoscibile. Lenti e lunghissimi movimenti sul piano della macchina da presa, inquadrature in esterni a volte caratterizzate da un’angolazione non convenzionale (ma mai vertiginosa), uso del controluce e del nero assoluto. Primi piani stretti sui volti degli intervistati (alla ricerca di una fiamma interiore) e frame che raffigurano interni essenziali e basati su un sublime intreccio di linee, di spazi vuoti e pieni. Ogni immagine esprime, in sostanza, un valore in sè, in quanto metafora visuale di un aspetto della vita di Munio.
Quella che l’autore di Kedma e Free Zone ha realizzato con Lullaby to My Father è un’autentica lezione di cinema documentaristico. Gitai chiarisce definitivamente come documentare non voglia dire “proporre la verità”, quanto piuttosto comunicare una realtà (presente e/o passata) in modo tale che il testo audiovisivo sul quale è incentrato il racconto di questa realtà rappresenti un insegnamento per chi guarda, non in senso banalmente pedagogico ma in senso filosofico-poetico.
© CultFrame 08/2012
TRAMA
Il regista israeliano Amos Gitai ricostruisce le vicende che portarono l’architetto Munio Gitai Weinraub, suo padre, a fuggire in Palestina durante il madato britannico. La formazione giovanile, gli studi con Gropius, il Bauhaus e una nuova concezione dell’architettura. Tutto è descritto con estrema lucidità e tramite raffinate ricostruzioni.
CREDITI
Titolo originale: Lullaby to My Father / Regia: Amos Gitai / Sceneggiatura: Amos Gitai / Fotografia: Renato Berta / Montaggio: Isabelle Ingold / Scenografia: Miguel Markin / Musica: Zoe Keating / Interpreti: Uael Abecassis, Jeanne Moreau, Hanna Schygulla, Keren Gitai, Ben Gitai / Produzione: Agav Films, Hamon Hafakot, Elefant Films, Arte Cinema France, CNC, Rai3, RAbinovich Foundation, Achav Films / Paese: Israele, Francia, Svizzera, 2012 / Durata: 90′
LINK
CULTFRAME. Maestri del Cinema. Amos Gitai. Di Maurizio G. De Bonis
CULTFRAME. Architetture della Memoria. Video-installazione del cineasta israeliano Amos Gitai. Di Silvia Nugara e Claudio Panella
CULTFRAME. Cofanetto Amos Gitai. Di Maurizio G. De Bonis
Il sito di Amos Gitai
Filmografia di Amos Gitai
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia – Il sito