Che la complessità dello strumento fotografico sia considerata con attenzione per la sua natura ambigua e plurima è di per sé un fatto positivo e apre la riflessione a tentativi di una sua maggiore comprensione. La questione del tempo in fotografia messa in relazione con l’Aion e il Kronos, riaperta da Maurizio G. De Bonis su queste pagine con l’articolo L’immagine fotografica tra Kronos e Aion, ne evidenzia uno degli aspetti più singolari. E proprio da qui vorrei partire per porre l’attenzione su una delle conquiste più importanti nella messa a punto del dispositivo fotografico, non solo meramente tecnica ma, come vedremo in seguito, significativa per lo sviluppo del pensiero sulla fotografia.
Partiamo da relativamente lontano. Nella prima metà dell’ottocento, per essere più precisi nell’anno della proclamazione della scoperta della fotografia il 1839, si è venuto a concludere un percorso di ricerca lungo, complesso e variegato dove gli attori protagonisti erano molti di più di quelli che appaiono oggi come i fondatori benemeriti. Uno dei problemi cruciali da affrontare, sul quale molti non trovarono soluzione, era quello del conservare l’impronta luminosa dopo la sua formazione. Questo passaggio, che ho ripreso dal testo L’atto fotografico di Philippe Dubois (a cura di Bernardo Valli, edizioni Quattroventi, Urbino 2009), ci spiega in maniera chiara e inequivocabile l’importanza di questa scoperta:
“In particolare, non bisogna dimenticare che la “formazione” di un’immagine su un supporto coperto di sali d’argento sensibili alla luce è una cosa, ma che la “conservazione” dell’impronta luminosa così apparsa è un’altra. C’è lì una separazione fondamentale, che differenzia gli “insuccessi” di un Charles e di un Wedgwood e i “successi” di Niépce, Daguerre e Talbot. In breve, è tutto il problema del passaggio dall’”esposizione” dell’emulsione al “fissaggio” dell’immagine. Ed è solamente quest’ultimo aspetto, quello che permette di registrare l’immagine stabilmente, che fa sì che si acceda veramente alla fotografia.”
E’ qui del tutto evidente come la questione del fissaggio sia essenziale, non solo per la definizione del concetto di fotografia, ma soprattutto per la sua funzione e fruizione all’interno della nostra idea di tempo sulla quale stiamo cercando di argomentare.
Tornando ora al discorso propositivo di De Bonis su Kronos e Aion potremmo tentare un ragionamento: al di là del fatto di usare una tecnica di ripresa in o off camera e cioè con o senza macchina fotografica, nel passaggio dall’esposizione, o registrazione, al successivo fissaggio, alla stabilizzazione di un’immagine sui materiali sensibili, potremmo entrare nel mondo di Kronos; un presente che tende a fagocitare in sé il tempo, compreso il passato e l’ipotizzabile futuro, al quale possiamo condizionare e relegare tutte le azioni e le relazioni con ciò che ci circonda. Mentre un’immagine non fissata, pertanto instabile, potrebbe, per ipotesi, essere collocata all’interno del concetto di tempo di Aion; un tempo declinato a un presente che si muove incessantemente su di una astratta linea infinita, mai puntuale, ma sempre assoggettato al passato o proiettato in un ipotizzabile futuro.
Ma ci potrebbe essere un’altra strada da prendere in considerazione, un altro tempo; un non tempo. Illuminante in questo caso è l’ulteriore considerazione di Dubois, sempre ripresa dal testo sopra citato: “In altre parole, ciò per cui l’immagine ci viene rivelata è anche ciò per cui, con lo stesso procedimento, essa si distrugge.”
Quello che sto cercando di ipotizzare è che l’azione della luce sui materiali fotosensibili non fissati, non stabilizzati, fa sì che siano compresenti passato, presente e futuro che di fatto si annichiliscono tra di loro, annullando la concezione e la percezione di tempo a noi più comune, una anomalia, un atopon (come ci ricorda De Bonis); un numero infinito di eventi che si depositano, senza soluzione di continuità, sull’emulsione sensibile, non controllabili, non stabili, rivelati e distrutti, come ci dice Philippe Dubois.
Mi permetto qui di fare un’osservazione alla parola “distrugge” usata da Dubois; dal mio punto di vista sarebbe meglio definire questo processo una trasformazione e non una distruzione, se non altro per il fatto che la luce che si deposita sui materiali sensibili va a sommarsi e ad interagire, trasformandola, con quella che si era precedentemente sensibilizzata.
Questo processo non è l’unico a evidenziare il potenziale destabilizzante del dispositivo in questione, ma sicuramente è un fattore che ci fa risalire fino alla comprensione più semplice e radicale della questione in sé. A questo punto penso che a tanti di voi, come al sottoscritto, sarà venuto un dubbio: stiamo ancora parlando di fotografia, visto che il processo di stabilizzazione dell’immagine è un fattore determinante per la definizione di questo dispositivo, e proprio perché in questo ultimo proposito viene omesso?
Qui ritorna prepotente l’ambiguità e la pluralità di questo strumento sul quale, probabilmente, concentriamo le nostre pur giuste attenzioni e convenienze sulle dinamiche e le conseguenze di una visione di un racconto piuttosto che alle indicazioni possibili di un “senso altro? potenzialmente presenti in esso. Sottolineo quanto scritto nell’articolo già citato e punto di partenza di questa riflessione, e cioè di quanto vasto e complesso sia l’argomento in questione sul quale sicuramente vi sarà la necessità di ulteriori approfondimenti.
© CultFrame – Punto di Svista 10/2012