Alcune considerazioni sulla moda “fotografica” di tendenza negli ultimi tempi: la realizzazione da parte di fotografi di testi audiovisivi (video, documentari) in grado di ampliare il loro territorio professionale. Questo fenomeno, in buona parte nato per esigenze commerciali e non espressive, ha ricevuto un forte impulso dalle possibilità fornite dalle macchine fotografiche più (o meno) sofisticate ormai in grado di generare video di notevole qualità visuale.
La questione è significativa, soprattutto se facciamo riferimento alle frontiere linguistiche che i fotografi si trovano a dover valicare. Ma, a tal proposito, appare necessario fare chiarezza.
L’improvvisa scoperta del video riguarda solo ed esclusivamente il mondo del fotogiornalismo. In verità, nell’ambiente artistico (perdonate questa formula un po’ vaga), i confini tra cinema, fotografia e video sono stati abbattuti da moltissimo tempo. Bisogna, dunque, evidenziare come certo conservatorismo dell’universo fotogiornalistico abbia causato un ritardo non spiegabile se non con un controproducente atteggiamento di chiusura, ostile nei riguardi di un’auspicabile comunicazione tra le diverse forme espressive visuali.
In secondo luogo, l’aspetto più importante riguarda un gigantesco problema che produce un altrettanto macroscopico equivoco: il video non è un linguaggio ma un dispositivo tecnologico. Ed ancora, non basta impadronirsi dei software di montaggio per poter realizzare dei testi audiovisivi.
Andiamo con ordine. Quello della fotografia è certamente un linguaggio, da cui ha preso vita il linguaggio del cinema. Al di fuori di questi due ambiti non è possibile parlare di nuove forme linguistiche a meno che non si sfori nell’arte digitale (o net art). Chi fa video e, ancor di più, chi fa documentari (o presunti tali) deve necessariamente conoscere il linguaggio filmico. In particolar modo, deve conoscere le teorie del montaggio e le teorie del racconto, strutture narrative comprese. Questi fattori possono permettere a chi usa il video (dispositivo tecnologico) di poter articolare un discorso audiovisivo consapevole.
Per essere chiari, non basta saper stringere una penna tra le mani e fare qualche scarabocchio su un foglio bianco per poter affermare di saper scrivere. È necessario conoscere una lingua, cioè padroneggiare perfettamente i segni, la grammatica e la sintassi della forma di comunicazione che si intende utilizzare.
Fuori da questa logica non può esistere alcuna reale possibilità espressiva per ciò che concerne l’uso del dispositivo video.
Per chiudere una notazione: il fatto che il fotogiornalismo (italiano) si stia sempre più aprendo a questo nuovo linguaggio è a mio avviso un bene, un’evoluzione totalmente positiva. Appare però opportuno che chiunque scelga di attraversare questo nuovo spazio di creazione compia un salutare sforzo di apprendimento, di alfabetizzazione e di innovazione culturale.
© CultFrame – Punto di Svista 11/2012