Ci sono amori che vanno oltre. Oltre il conosciuto, il consueto e ciò che definiamo (ammesso che ciò abbia un senso) “normale”. Si tratta di passioni che sconfinano al di là del territorio del sentimento noto ai più e si declinano in atteggiamenti che superano il concetto dell’innamoramento, inteso come puro donarsi all’altro. All’esatto opposto, infatti, esse si sottraggono, non già all’affetto o alla pulsione emotiva, quanto – e soprattutto – al legame fisico, all’unione carnale che, sublimata da quel palpito, diventa appunto amore.
Dino e Anna si amano. Perdutamente. E disperatamente. Non hanno rapporti sessuali e, mentre lei brama il corpo di lui, egli la rifiuta per cercare soddisfazione, nottetempo, nel sesso mercenario, nei locali per scambisti e condividere con estranei un sesso che, contrariamente alla morbosità delle atmosfere in cui esso si consuma, Dino vive come un progressivo, funebre scivolare verso il baratro del nulla.
L’impossibilità di vivere un amore, la devastante convinzione di non meritarlo, né di aver diritto ad alcuna felicità, erodono l’anima del protagonista come un morbo micidiale che lo divora dall’interno mentre Anna, priva dell’appagamento fisico del suo amato, trae – in un tragico paradosso – da quel negarsi a lei la prova di un sentimento assoluto che la fa sentire unica e viva.
Egoismo? Egocentrismo? Autolesionismo? Non c’è risposta univoca al male di vivere e Franchi non soltanto non cerca di darne una ma edulcora maldestramente il senso dell’istanza.
La sofferenza di Dino, il dolore umiliante di Anna e il dramma profondo che, dicotomicamente, unisce e lacera la loro coppia resta alla superficie di una narrazione arida e banale. E la chiamano estate è un film di rara presunzione che ostenta velleità autoriali attraverso le quali cerca di celare la mediocrità di una sceneggiatura che approccia, in modo grossolano, tematiche di intrinseca complessità.
Paolo Franchi (autore dei non proprio convincenti La spettatrice e Nessuna qualità agli eroi) sceglie una narrazione ad incastro in cui la cronologia degli eventi è scandita dalla voce fuori campo di Dino che, in una lettera, tenta di mostrare ad Anna il vero se stesso e nell’esasperante reiterarsi della stessa frase, nella scelta cromatica di una fotografia che illumina di luce posticcia gli interni, i due protagonisti (an)negano le loro identità in un’atmosfera artificiosa in cui anche il dramma si fa patinato.
Nel mettere a nudo, non soltanto metaforicamente, la coppia, il regista bergamasco vorrebbe esplorare il senso profondo del disagio, esperire la “petite mort” batailleana di quell’ “essere discontinuo” umano e caduco ma finisce per rappresentare lo squarcio doloroso di un rapporto in una forma involontariamente grottesca, amplificata dall’algida inespressività di entrambi i protagonisti.
Impossibile, quanto sacrilego, il confronto con Shame di Steve McQueen ma è doveroso citare il film del regista inglese a dimostrazione che l’arte cinematografica può restituire, nelle immagini, la lacerazione profonda dell’uomo attraverso un rigore narrativo e una raffinatezza registica che esaltano la qualità della visione.
L’amore, il sesso, il desiderio, l’esplorazione di sé sono, per dirla con Sartre, “un insieme di cerimonie che incarnano l’altro”. Raccontarle esige rispetto e l’umiltà, artistica e umana, di avvicinarsi ad esse non già con l’alibi di una questione di gusto ma con la saggia consapevolezza di non poter (forse) mai rintracciare l’equilibrio tra l’essere e il nulla.
© CultFrame 11/2012
TRAMA
Dino e Anna sono una coppia di quarantenni che si amano profondamente ma non hanno rapporti sessuali. Dino si sottrae al sesso con la moglie e cerca l’appagamento fisico nell’eros a pagamento e nei locali per scambisti. Il passato dell’uomo, funestato da lutti e abbandoni, probabilmente lo ha reso ciò che è ora ma Anna, pur soffrendo la mancanza di una soddisfazione carnale, accetta questo rapporto in cui Dino, malgrado tutto, la fa sentire viva e unica. Nonostante l’amore che li lega i due saranno destinati ad allontanarsi sempre di più e la progressiva caduta dell’uomo nel suo personale baratro condurrà ad un drammatico epilogo.
CREDITI
Titolo: E la chiamano estate / Regia: Paolo Franchi / Sceneggiatura: Paolo Franchi, Daniela Ceselli, Rinaldo Rocco, Heidrun Schieef / Fotografia: Cesare Accetta, Enzo Carpineta / Montaggio: Alessio Doglione, Paolo Franchi / Scenografia: Gianmaria Cau / Musica: Philippe Sarde / Interpreti: Isbaella Ferrari, Jean-Marc Barr, Luca Argentero, Filippi Nigro / Produzione: Pavarotti Internaizonal 23 / Distribuzione: Officine Ubu / Paese: Italia, 2012 / Durata: 89’
LINK
Filmografia di Paolo Franchi
Festival Internazionale del Film di Roma – Il sito
Officine Ubu