Due immagini mi hanno colpito particolarmente. Nella prima, un gruppo di operai esce dai cantieri navali di Palermo. Inquadratura frontale, apparentemente diretta. L’atto fisico dell’uscita è compresso nella tensione viva del movimento. Nella seconda, una donna e tre bambini sono davanti a una fontanella pubblica romana. Sullo sfondo la città che avanza, sul lato sinistro dell’immagine alcune baracche.
Si tratta di fotografie realizzate da Tano D’Amico nel 1970, entrambe basate su due elementi che da sempre stimolano le mie riflessioni sulle arti visive: il legame tra l’immaginario fotografico e quello cinematografico e la natura metaforica delle inquadrature (foto-filmiche).
Ebbene, la prima immagine mi fa tornare in mente il film dei fratelli Lumière, datato 1895, La sortie de l’usine Lumière (L’uscita dalla fabbrica Lumière), mentre la seconda evoca due lungometraggi di Pier Paolo Pasolini: Accattone (1961) e Mamma Roma (1962).
Ma ritorniamo alla natura metaforica delle immagini. Quelle sopra elencate sono fotografie solo apparentemente connesse a contingenze storiche, a fatti precisi e a periodi circoscritti, in verità comunicano valori universali fuori dal tempo e dalla storia (intesa come linea cronologica degli eventi dell’umanità).
Cosa emerge, dunque, da questo mio breve ragionamento? Semplicemente il fatto che Tano D’Amico, come capita a coloro i quali guardano il mondo con sguardo libero, si è collocato sulla linea dell’aion (concetto di tempo diverso da quello di kronos), cioè in quella dimensione espressiva nella quale alcuni individui, capaci di esprimersi in un presente dinamico e mobile (che non contempla il passato e il futuro come fattori monolitici), si occupano dei medesimi contenuti, e per tale motivo finiscono per incontrarsi senza mai essersi conosciuti e pur essendo vissuti in epoche molto diverse.
Le fotografie in questione fanno parte del volume intitolato Anima e memoria – Il legame imprendibile tra storia e fotografia (Postcart Edizioni, 2012). Tano D’Amico è, appunto, il suo autore. Si tratta di un’opera basata su un montaggio alternato (procedimento tutto cinematografico) di testi/riflessioni e scatti fotografici, montaggio tenuto insieme proprio dall’impostazione del pensiero di Tano D’Amico.
Non ingannino i termini presenti nel titolo e sottotitolo: memoria e storia. Tano D’Amico non storicizza in modo accademico (per fortuna) e non usa in maniera inappropriata la parola memoria (spesso confusa con ricordo). In questo caso, memoria è da ricondurre alla sua accezione più significativa: emersione del passato nel presente. Inoltre, la storia diviene nel pensiero di D’Amico spazio aperto della riflessione sulla condizione umana, al di là della convenzione (commerciale) del tempo. Ad armonizzare questi due termini, è il vocabolo anima. Se facciamo riferimento alle radici etimologiche di questo vocabolo scopriamo che viene dal greco ànemos, ovvero vento, soffio; anima, dunque, intesa come spirito che si avverte (e non si vede) e che determina la formazione di idee le quali alludono a una precisa visione del mondo. Proprio l’anima (anche se io amo più questa parola al maschile) è il cuore pulsante del volume di Tano D’Amico, e ciò si evince dalle sue fotografie ma anche dai suoi ragionamenti inequivocabili e non schematici.
Quali di questi pensieri mi ha invitato (più di altri) alla riflessione? Eccoli.
“L’immagine […] è un atto di fede. Non pretende nulla. […] Viva per conto suo, da sola, indipendentemente […].”
Ed ancora:
“[…] Si costruisce una fotografia che ostenta falsi limiti. Il falso mosso, gratuito, senza motivo, senza causa reale. Il falso fuori fuoco. Il falso buio, il falso scuro […]. Si costruisce un falso limite da cui far scaturire una falsa poesia. […].”. “[…] Spesso i reportage dei nostri giorni non sono altro che raccapriccianti atlanti degli orrori. […]”. “[…] una immagine forse conta più per l’invisibile che c’è in essa che per le cose e le persone che fa vedere. […].”
Ebbene, sarebbe del tutto pleonastico da parte mia commentare affermazioni così nitide perché finirei per scrivere i medesimi concetti con superflui e inutili giri di parole. Le considerazioni di Tano D’Amico non hanno bisogno di note a margine, di ulteriori affermazioni che ne rafforzino la sostanza. Personalmente, non voglio fare altro che (ri)comunicarle in questo mio testo. Vorrei, però soffermarmi più approfonditamente su altri due passaggi che meritano, a mio avviso, ancor più attenzione: uno di tipo “politico” e un altro di tipo teorico/espressivo.
Giustamente, l’autore stigmatizza la pratica di alcune testate giornalistiche, anche di “sinistra”, le quali pur definendosi contrarie alla guerra pubblicano “[…] immagini che di per sé sono inni alla guerra. Immagini di grandi agenzie che sono per la guerra. Sono fotografie molto più forti del titolo. Mostrano quanto l’indignazione delle parole sia falsa, ipocrita, poco sentita […]”.
Sottoscrivo in pieno queste dichiarazioni e, d’altra parte, questi argomenti sono stati sempre al centro delle “battaglie culturali” portatiamo avanti. La spettacolarizzazione estetizzante della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, del dolore, della morte, del sangue, della povertà è esercizio costante di molti organi di informazione che si dicono a parole contrari a tali fattori. Si tratta, purtroppo, di uno dei peggiori fenomeni di falsificazione comunicativa (per scopi prettamente commerciali) dei nostri tempi.
Il problema è che quando si sottolinea ciò, ci si mette contro i poteri dominanti della comunicazione (anche fotografica); e quando il potere (anche fotografico) si sente attaccato finisce per adottare sistemi di autoprotezione alimentati da coloro i quali, per vari motivi, sperano di trarre vantaggio da questo sistema bloccato e di poter accedere, in futuro, ai posti di comando, non capendo che il potere è, e sarà sempre, gestito da caste assolutamente impermeabili.
Passo ora al secondo punto. Afferma D’Amico:
“[…] da più di mezzo secolo ormai si è affermato questo tipo di immagine, l’immagine che documenta, che registra. È un tipo di immagine che non ha mai cambiato niente, che non fa altro che perpetuare il modo di vedere di chi comanda. Una rappresentazione letterale della realtà non fa altro che spingere a un’ulteriore passività. Si riduce l’immagine a cosa che non ha una vita propria, che vive in funzione della didascalia. […]”.
Tale questione mi sembra centrale. Il mito intoccabile della documentazione (intesa come registrazione visuale/oggettiva di una cosa) ha ucciso il potenziale informativo/comunicativo della fotografia stessa. La registrazione di una presunta realtà non scalfirà mai la compattezza del potere. Fare retorica sugli eventi tragici dell’umanità grazie alla “registrazione di una cosa, di un fatto” non porterà mai alla veicolazione di idee libere e non conformistiche. Le immagini divengono all’interno di questo meccanismo solo elementi aridi, senza una “vita propria”. Sono già morte prima di essere scattate; sono, appunto, conformiste (cioè conformi a un “regime”, qualunque esso sia).
Chiudo questa mia riflessione dicendo che Anima e Memoria è un libro “altro” rispetto agli schemi a cui l’editoria fotografica ci ha abituati. È un flusso di pensiero testuale/visuale al quale bisogna abbandonarsi se lo si vuole comprendere a pieno. Insomma, appare necessario percepire l’ànemos delle parole e delle immagini per cogliere l’occasione per ragionare non solo sulla fotografia ma anche sul nostro modo di guardare il mondo.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2012
CREDITI
Titolo: Anima e memoria – Il legame imprendibile tra storia e fotografia / Autore: Tano D’Amico / 160 pagine / 75 fotografie / Stampa colore / Postcart Edizioni, Roma, 2012 / Collana: Postwords / ISBN 978-88-86795-82-1