Per ricordare il cineasta giapponese Nagisa Ôshima, scomparso il 15 gennaio 2013, mettiamo in evidenza l’articolo che Nicola Roumeliotis ha scritto in occasione della retrospettiva realizzata in occasione del 27° Torino Film Festival.
Uno dei registi più atipici e geniali del panorama odierno, il giapponese Nagisa Ôshima, ha avuto uno spazio considerevole all’interno dell’appena conclusa 27ma edizione del Torino Film Festival. Ma la vera novità di questa retrospettiva non può che essere il fatto che accanto ai riconosciuti (e riconoscibili) capolavori del regista è stata proposta una fetta dei documentari che Oshima ha firmato a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70.
L’opera di Ôshima è stata molto importante nella storia del documentario giapponese. Fino agli anni ‘60, infatti, i documentari dovevano essere obiettivi, rappresentare i fatti e la realtà così come erano, da un punto di vista il più possibile neutro, senza l’impronta di chi li realizzava. In questo contesto, i lavori di Ôshima hanno avuto un effetto dirompente, inaugurando un nuovo modo di fare cinema documentaristico: una maniera molto personale, con un punto di vista prettamente individuale e un forte messaggio soggettivo. Così, i documentari di Ôshima hanno avuto un effetto paragonabile ai suoi lungometraggi. In Ôshima, più che in ogni altro regista della sua generazione, è evidente la contraddizione degli anni ’60, in cui passato e presente sono dialetticamente contrapposti senza però arrivare a nessuna sintesi. Il suo senso della storia vacilla tra marxismo e l’utopia di una nuova identità nazionale, pur con la coscienza dell’imperialismo giapponese e del colonialismo americano.
Dopo un paio di pellicole come Asu no taiya (1959) e Il quartiere dell’amore e della speranza (Ai to kibo no machi, 1959), con Racconto crudele della giovinezza (Seishun zankoku monogatari, 1960), Il cimitero del sole (Taiyo no hakaba,1960) e, soprattutto, Notte e nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri, 1960) Ôshima viene decretato come una delle grandi speranze del giovane cinema nipponico.
È difficile rendere omaggio all’opera di questo regista proprio perché particolarmente complesso sia dal punto di vista delle tematiche ma anche per quello stilistico. Per ciò che riguarda i suoi documentari presenti alla retrospettiva torinese segnaliamo Wasurerareta Kogun (Un esercito imperiale dimenticato), del 1963, nel quale si raccontano le proteste dei moltissimi soldati coreani arruolati dall’esercito giapponese durante la guerra dei quindici anni e poi, dopo il 15 agosto del ’45, lasciati a loro stessi, privati della cittadinanza e dell’indennità, abbandonati sia dal Giappone che dalla Corea, che li considerava dei traditori vendutisi all’aggressore. Di questi ex soldati dell’Imperatore dimenticati, la maggior parte dei giapponesi non sapeva nulla. Proprio per questo, Ôshima ha scelto di raccontarne la storia, per mettere il pubblico davanti a quella realtà e suscitare un senso di vergogna e indignazione per quello che il Giappone, durante la guerra, aveva fatto. E poi, Daitoa senso (La guerra per la grande Asia orientale, 1968), dal nome della campagna di aggressione del Giappone imperialista nel continente asiatico, un documentario unico che fece scalpore. Ôshima montò vecchi documentari della propaganda imperialista, così com’erano, utilizzando anche l’audio originale. A distanza di anni, vedere quelle immagini e sentire quelle parole e quel linguaggio, ormai dimenticati e legati a quel pezzo di storia, provocò un impatto molto forte tra i giapponesi.
Ovviamente, non potevano mancare le pellicole più famose del regista quelle con le quali ha vinto la resistenza del pubblico mondiale nei suoi confronti ed ha spiazzato una certa critica ottusa che non comprendeva il suo modo di fare cinema così lontano da un certo accademismo di molti suoi colleghi provenienti dal paese del sol levante. Stiamo parlando di opere comeLa cerimonia (Gishiki, 1971), sempre in bilico tra industria e creatività, e film come Ecco l’impero dei sensi (Ai no Corrida, 1976), il cui radicale erotismo fece “scandalo”, e il suo seguito L’impero della passione (Ai no Borei, 1978). Si tratta di titoli che hanno ottenuto un grande successo in Europa e che gli hanno consentito di lavorare con produttori europei, in occasione di opere del calibro di Furyo (Merry Christmas, Mr Lawrence, 1983, con David Bowie e Ryüichi Sakamoto) e Max, mon amour (Max amore mio, 1986, con Charlotte Rampling).
Poi il ritorno ai progetti con fondi esclusivamente giapponesi. Il suo ultimo lungometraggio è Tabù (Gohatto, 1999), con Takeshi “Beat” Kitano. Un’opera testamento straordinaria e unica nel suo genere.
© CultFrame 11/2009 – 01/2013
IMMAGINI
Frame dal film Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Ôshima
Frame dal film Racconto crudele della giovinezza di Nagisa Ôshima
Frame dal film Max, mon amour di Nagisa Ôshima
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