Catalogo degli orrori e dell’estetica splatter. Un individuo disteso per terra viene sottoposto a sevizie da due uomini che gli tengono i piedi sollevati e da un terzo (di cui si vede solo l’ombra) che con tutta probabilità lo sta frustando. Un bambino seminudo (visibile in volto), con testa e mani imbrattate di sangue, piange disperatamente. Due cadaveri distesi per terra vicino a un tavolo da biliardo sono immersi in un lago di sangue. Un cadavere galleggia in uno specchio d’acqua nel quale sono riflesse delle nuvole. Un uomo morto e seminudo viene trascinato (tramite delle corde che tengono legate le sue due caviglie) a velocità da un individuo che guida una motocicletta. Una folla di adulti porta in una cerimonia funebre i corpi senza vita di due bambini (ben visibili in volto).
Si tratta della descrizione di alcune fotografie che hanno riportato premi in occasione del World Press Photo 2013 (in relazione all’anno appena conclusosi). Volutamente non abbiamo citato autori e luoghi, e neanche il tipo di riconoscimento che queste opere si sono aggiudicate. Non ci interessa partecipare alla divulgazione, priva di critica, di queste fotografie e neanche discutere sulle presunte elaborazioni digitali che forse potrebbero aver subito.
Continuiamo, invece, a porci/vi delle domande. Ha senso un fotogiornalismo concentrato sulla spettacolarizzazione della violenza e sull’effetto splatter? Gli autori di questi scatti si sono mai interrogati sul senso (importantissimo) del loro lavoro e sulla rilevanza della pratica fotogiornalistica? Si fa informazione veicolando questo genere di fotografie? È proprio così necessario scattare una fotografia, anche quando il soggetto ripreso (a volte addirittura non in vita) è umiliato, violentato, ridotto a oggetto di brutalità? È giusto vincere premi fotografici con simili immagini? Quale operazione culturale svolgono i giurati che assegnano premi a scatti come quelli indicati all’inizio dell’articolo? Serve al mondo della fotografia internazionale e dell’informazione una manifestazione come World Press Photo? Non vogliamo fornire risposte. Ognuno, in cuor suo e nella dimensione privata della propria coscienza, saprà darsi delle risposte.
Ciò che chi scrive vuole dire è che forse bisognerebbe ritornare a una sorta di grado zero del fotogiornalismo. Un tentativo di ripristino della connotazione umana del fare fotografia e dell’informazione visuale sembra non più rimandabile. Per far ciò, sarebbe opportuna una scelta radicale e coraggiosa: abolire i premi internazionali di fotogiornalismo, almeno per qualche anno, per dar tempo agli sguardi di chi produce immagini di tornare a guardare il mondo senza limitarsi all’uso sterile dello shock visivo, elemento quest’ultimo che non ha mai alleviato le afflizioni delle persone e delle collettività sofferenti e violentate.
Con voce sommessa, ma sincera e determinata, si propone (e si auspica) dunque la soppressione del World Press Photo.
© CultFrame – Punto di Svista 02/2013
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