Le informazioni che contribuiscono a far evolvere i nostri percorsi di conoscenza a volte si possono trovare in luoghi e ambiti sorprendenti. Sul tavolo di uno studio in cui ci si occupa di musica elettronica scorgo un testo dal titolo L’occhio e l’orecchio (editrice Il Castoro Milano 2004) di Mikel Dufrenne, (filosofo francese, si è occupato di fenomenologia della percezione e di estetica); lo sfoglio incuriosito e vi trovo notizie sul lavoro di Maurice Pradines (psicologo e filosofo nato in Svizzera ma che ha vissuto e insegnato in Francia).
Leggendo il testo di Dufrenne, viene citato uno studio dello psicologo svizzero in cui quest’ultimo ci indica come attraverso la filogenesi, scienza che studia l’evoluzione degli organismi vegetali e animali, si sia arrivati a dedurre che la vista e l’udito non siano altro che un’espansione sensoriale del tatto, mettendo in evidenza che l’origine e lo sviluppo di questi due sensi, per noi primari, sia dovuto al contatto.
Scrive Pradines nel Traité de psychologie générale (Presses Universitaires de France Parigi, 1943):
“Il senso localizza prima di discriminare e discrimina perché localizza”.
Infatti, le unità unicellulari situate all’interno del protoplasma attuando la prima differenziazione della sensibilità generale causano il cosiddetto tropismo; fenomeno per cui una cellula di un organismo animale o vegetale reagisce, tende a muoversi, in risposta ad uno stimolo esterno. Interessante è la spiegazione con cui lo scienziato ci descrive questo fenomeno.
Come prima detto, il tatto localizza prima di discriminare, di distinguere, e distingue perché circoscrive anticipando a scopo di difesa quanto potrebbe rivelarsi pericoloso: quindi apre lo spazio, ne esce fuori, localizzando un oggetto ancora indolore e lo rappresenta. L’oggetto tattile esiste in quanto oggetto rappresentato. Più l’essere unicellulare è colpito da scariche a bruciapelo (così le definisce Pradines), pertanto pericolose, più esso si allontana dall’oggetto del pericolo anticipando progressivamente la distanza tramite la rappresentazione, concretizzando e mantenendo così un efficace controllo sui pericoli che lo minacciano.
Ed ecco che da un fenomeno della presenza si passa, gradualmente, al conseguente perfezionamento evolutivo della rappresentazione: con lo sviluppo della vista, tramite la luce, organizzata poi in immagini e con lo sviluppo dell’udito tramite il suono e le sue organizzazioni.
Dunque, la vista e l’udito e, in questo caso specifico, tutto ciò che ne consegue per la nostra cultura sono in maniera plausibile un’evoluzione del tatto, del contatto, di cui probabilmente conserviamo “filogeneticamente” una qualche memoria.
Una prima riflessione che di getto mi viene in mente è relativa all’esperienza del distacco, elemento fondante della dualità soggetto-oggetto, che influisce in maniera sostanziale sulle dinamiche e sui percorsi della nostra esistenza. Queste informazioni ci offrono l’opportunità di approfondire e indagare, osservandolo da un punto di vista altro, il dilemma cardine su cui ruotano e convergono i diversi studi e le tante esperienze maturate dall’analisi e dal confronto con il dispositivo fotografico.
La trasformazione da uno status di rappresentazione a quello di presenza è a mio avviso il punto cruciale su cui indagare per una corretta cognizione della fotografia, al di là delle attribuzioni successive che possono, per necessità a noi logiche, maturare all’interno degli ambiti specifici in cui viene utilizzata. Se riusciamo a cogliere questo aspetto imprescindibile della fotografia comprenderemo finalmente la sua autonomia, le potenzialità intrinseche di un dispositivo che per primo si distacca da una corrispondenza diretta mente/mano per approdare ad un altro stadio di comprensione della realtà che ci circonda; quello regolato direttamente dallo strumento che, pur se pilotato dalle tecniche fotografiche conserva in sé a prescindere un suo grado di autonomia. È a questa autarchia che dovremmo dirigere gli approfondimenti necessari, magari ipotizzando, proprio per queste sue qualità, un ritorno da una fase di rappresentazione a quello di una presenza.
E quale elemento potrebbe ricondurci verso la destinazione di partenza, al riavvicinarci progressivamente verso un contatto più diretto, meno mediato, a una presenza?
È la luce; la stessa che ci ha condotti fino a qui, il più delle volte nell’inconsapevolezza più assoluta. Ciò che noi definiamo l’atto (del) fotografico è il manifestarsi della materia che va oltre la nostra volontà di rappresentazione, anche quando avvertiamo che ciò che abbiamo fotografato è quello che abbiamo pensato di fotografare.
Il risultato che osserviamo è un evento generato dell’azione della luce su materiali sensibili e non un prodotto diretto della nostra mente/mano. Quello che maggiormente ci inganna, per certi versi, sono gli accessori che abbiamo costruito (macchina fotografica per prima) pensando così di sottomettere il tutto alle nostre esigenze ma, come abbiamo più volte sottolineato, l’inconscio tecnologico è già di per sé un elemento che ci fa riflettere sullo stato di autonomia del mezzo fotografico. La luce, altresì, apre un varco nel nostro stato di coscienza, è elemento sì destabilizzante, ma che ci potrebbe ricondurre a uno stato di presenza; un ponte tra il conscio e l’inconscio. Accettare la possibilità di interpretare la fotografia come un fenomeno di presenza, di “relazione esistenziale” (Charles S. Peirce) e non come una rappresentazione ci scaraventa in un abisso di domande non sempre piacevoli su ciò che noi definiamo realtà; ma è proprio da qui che potrebbe aprirsi un varco attraverso un mondo pieno di possibilità. L’atto (del) fotografico in sé non è esaustivo, è informativo; è uno strumento di indagine, che può permetterci un’intuitiva relazione tra noi e le cose o tra le cose che ci circondano, con o senza la nostra determinazione. Se in fotografia si fa perno e forza sulla gigantesca energia evocativa che la luce trasporta e trasmette potremmo osservare, fare esperienza, portare alla coscienza, micro e macrocosmi paralleli a quelli della nostra esperienza quotidiana.
© CultFrame – Punto di Svista 02/2013