Antonio Ottomanelli lavora sulle trasformazioni dei territori che attraversa e trova connessioni tra i luoghi nei quali si sono verificati conflitti, all’estero come in Italia. Non è interessato all’azione, preferisce invece dirigere il suo sguardo verso i “margini”, aree dove nella maggior parte dei casi si evita di guardare. Ottomanelli, in sostanza, si pone delle domande nel tentativo di costruire una riflessione “globale” sul rapporto tra territorio ed essere umano.
È interessante l’influenza, nella tua fotografia, degli studi che hai svolto nell’ambito della Facoltà di Architettura. Si nota una commistione tra fotografia documentaria e fotografia di architettura. Che tipo di relazione c’è tra questi due campi d’indagine?
Questa scelta è strettamente legata sia al percorso di studi che ho fatto sia alle esperienze di lavoro nell’ambito dell’architettura. Prima di tornare definitivamente alla fotografia ho lavorato come architetto per diverso tempo. In quel periodo non capivo per chi stessi lavorando, né comprendevo quale direzione stesse prendendo la mia professione. Per cui, dopo attente riflessioni, non ho retto più questa situazione e sono tornato alla fotografia.
Per me non c’è molta differenza tra fare il fotografo o l’architetto. Da fotografo effettuo una ricerca in ambito architettonico; studio la trasformazione del paesaggio e cerco di elaborare una riflessione critica su quello che accade e su quello che è l’architettura contemporanea di oggi. Per me non è il “mainstream” ma è tutto un sistema di avvenimenti che ci circondano e che sono distanti da noi. Secondo me la scelta più interessante che dovrebbero fare gli architetti è quella di decidere di non progettare; dovrebbero ricostruire, ricomporre, restituire dignità ai luoghi, quindi interrogarsi. Non cercare di edificare nuovi totem, nuovi monumenti.
Io ho scelto di non progettare in maniera volontaria e cosciente. È una scelta politica e l’architettura è il mio sistema di riflessione. Cerco sempre di portare all’interno dei circuiti legati alla critica e allo studio dell’architettura questioni che a mio avviso sono molto più urgenti, come quelle legate all’Afghanistan che sembrano lontane ma che in realtà sono molto vicine a noi. Si parla appunto di territori che presentano vuoti identitari e che stanno aspettando una ricostruzione soprattutto culturale, una ricostruzione, a mio avviso, necessaria anche qui in Italia. Quindi, da una parte faccio riferimento alla fotografia che nasce nelle scuole di architettura, e che si porta dietro tutta una tradizione legata alla fotografia scientifica cercando di rappresentare l’architettura e di descriverla come dimensione dello spazio, e dall’altra parte sono stimolato dall’urgenza di raccontare dei fenomeni, dei fatti, dei sistemi molto più complessi di cui l’architettura è sicuramente simbolo ma che non riesce a spiegare completamente.
Ci puoi dire come scegli i temi da affrontare e perché hai rivolto il tuo sguardo verso aree e territori che hanno subito conflitti bellici?
Appena ho deciso di ritornare alla fotografia sono andato a L’Aquila. Sentivo questa forte necessità. Nei progetti su cui avevo lavorato c’era sempre una volontà di resistere al tempo e di non accettare mai il concetto di crollo come parte della vita dell’uomo e quindi anche come parte dell’architettura. Penso, invece, che l’accettazione del crollo sia fondamentale per sentirsi davvero “esseri umani”. Fa parte di un’evoluzione che è positiva, necessaria. Anche L’Aquila è un territorio di conflitto, così come Haiti. Il “conflitto? non è solo bellico e può avere varie caratteristiche. Tra queste la volontà individuale di emancipazione e di libertà oppure quella generata da un’architettura che non è solo quella edificata e usata come strumento di controllo antidemocratico; a L’Aquila sono riuscito a recuperare questi elementi in modo molto chiaro. Poi ci sono stati Haiti, l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina. Questi luoghi, per me, rappresentavano una sorta di territorio emblematico, quasi un grado zero del conflitto e volevo raccontarlo cercando di restituire valore ai territori stessi.
Nel tuo modo di fotografare si nota una certa distanza dal soggetto, che sia paesaggio o figura umana. Cosa significa per te questa distanza e che tipo di relazione hai con i tuoi soggetti?
Da una parte ci sono io. Sono una persona riservata e prima di stringere un contatto davvero intimo per me ci vuole del tempo, ma non perché io abbia pregiudizi. È solo una conformazione strutturale e ciò sicuramente si percepisce nelle mie immagini. Dall’altra parte c’è una questione più teorica, una volontà quasi cartesiana di raccontare in maniera oggettiva ciò che vedo. Prendere una posizione non vuol dire esprimere il tuo pensiero in una sola immagine. La tua posizione è ciò che viene fuori alla fine del tuo lavoro, quando inizi a guardarlo e rifletti su ciò che hai fotografato.
Da parte mia non c’è mai un tentativo di catturare l’attimo, ma piuttosto quello di fermarsi e prendere tutto il tempo che serve per comprendere quel soggetto nel modo più onesto possibile. Se pensiamo alle numerose immagini nelle aree di conflitto possiamo parlare di collezione di immagini emblematiche, simboli della distruzione, un marchio che le distingue. Ma ciò che accade intorno al conflitto non viene molto fotografato. Si raccontano gli scontri bellici, l’azione, ma il territorio e le storie ai margini sono fattori presi poco in considerazione. Le immagini non dicono tutto, non ti raccontano i retroscena su come hai scattato quella foto; eppure quel retroscena è molto importante anche perché questo lavoro noi non lo facciamo mai da soli. Quando mi trovo in certi territori conosco molta gente che mi aiuta a lavorare.
Oltre al mezzo fotografico utilizzi anche altri strumenti come il video e il disegno. Ci puoi parlare della tua esperienza e dei progetti che hai portato avanti con questi mezzi?
Durante le mie indagini fotografiche, mentre lavoro, porto avanti delle esperienze laboratoriali aperte che si ispirano ai modelli di educazione libertaria. La fotografia in alcuni frangenti ha dei limiti ma non in senso assoluto. Per arrivare a comprendere alcune cose ho dunque necessità di utilizzare altri mezzi. Parlo del video e del disegno anche se non sono veri e propri strumenti: lo strumento è l’esperienza laboratoriale. Per modello libertario intendo i laboratori aperti che non siano strutturati come una classe dove c’è un professore e degli studenti che devono imparare. Preferisco, quindi, non concentrarmi solo sulla fotografia perché non voglio trasformare la mia attività fotografica in oggetto di trasmissione del sapere. In realtà, la fotografia la utilizzo per liberarmi da qualcosa, per “emanciparmi”. Le esperienze laboratoriali cercano di registrare, archiviare delle esperienze, dei racconti, delle storie che in alcuni casi ho chiamato “monumenti privati”: una sorta di letteratura minore, qualcosa di estremamente intimo che riguarda un patrimonio esteso e crescente di frammenti di vita, di storie che costruiscono tutto quell’insieme di simboli e oggetti conosciuti che cerco di riportare nelle foto spiegandoli e raccontandoli, e rendendoli umani; come le mappe che diventano racconti di città disegnate ed elaborate attraverso gli occhi di chi ci vive.
I sistemi di mappatura mettono sullo stesso piano il disegno della città con le storie minute e nascoste di chi la vive. Raccontano la storia contemporanea in maniera diversa rispetto a ciò che fanno i critici di architettura contemporanea, gli antropologi, i sociologi. Le mappe te lo raccontano passo per passo con una visione microscopica che l’architetto non potrà mai avere, come neanche il politico.
Da questa riflessione nasce la necessità di conservare lo strumento fotografico, perché è anche uno strumento terapeutico. Queste mappe hanno la caratteristica del movimento e si muovono alla stessa velocità dei racconti. Da lì nasce il “mapping identity” su Bagdad, una città priva di una mappa. Basti pensare che l’ultima mappatura è stata fatta nel 2003 dai militari americani. Dunque, racconta altre cose. È stata disegnata seguendo delle necessità altre. Bagdad non ha un catasto, eppure è una città in continua trasformazione, trasformazioni dettate dalle bombe ma anche dettate da una volontà di emancipazione, di miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro e famigliari.
In lavori come Big Eye Kabul utilizzi anche immagini che sembrano distanziarti sempre di più da un certo tipo di fotografia di reportage. Eppure racconti una vicenda che ha un valore giornalistico. Cosa pensi riguardo quella parte di editoria italiana che spesso e volentieri predilige un unico modo di vedere e raccontare la realtà?
È vero: c’è una distanza, ma non la cerco. È una distanza che non dipende da me, non è creata da me. Nel fare fotografia penso sempre alla stampa; che sia in grande formato, per una mostra o per una rivista, un libro, non importa. Penso che le foto debbano essere viste e debbano esprimere al meglio ciò che ritraggono ed anche ciò che ho vissuto.
Nel caso del lavoro Big Eye Kabul parliamo di una notizia molto importante: la questione del drone. Quando sono tornato e feci vedere questo lavoro mi resi conto che era una cosa sconosciuta. Stavo parlando di qualcosa che anticipava una certa riflessione che oggi è estremamente viva. C’è una certa difficoltà nel diffondere questo elemento sulle riviste e i mezzi d’informazione classici, sia per il taglio che per il numero delle foto. Penso che ogni lavoro viva di un suo tempo. Quando l’ho fotografato, l’ho fatto in maniera ingenua e per me questo è stato un passaggio importante. Prima o poi troverà il suo spazio.
C’è un filo conduttore che unisce i progetti che fai in Italia e quelli che invece realizzi all’estero?
Si, c’è una connessione. C’è il tentativo di restituire dignità a ciò che risulta essere poco interessante, ovvio o banale. È significativo fare ciò quando operi in contesti come il Medio Oriente o in territori difficili. Riesci a dare voce e valore a ciò che solitamente non è raccontato e provi a farlo vedere in maniera diversa, criticando il sistema dell’informazione. C’è un legame tra quei territori e il nostro ed è un legame che si basa sul conflitto in atto. Ciò che ho fotografato è un paesaggio post-evento globale ma in realtà non possiamo sapere dai ritratti che ho effettuato se c’è stato un conflitto o se ci sarà. Non si può capire. Però, sappiamo che il conflitto che avverrà, o che c’è stato, è sempre un conflitto di natura globale, non locale, globale perché interessa i territori in maniera trasversale a diversi livelli: culturale, infrastrutturale e sociale.
Cosa è per te il paesaggio? Parlaci del progetto Collateral Landscape.
Il paesaggio per me è un palinsesto di significati, un sistema di significati in evoluzione attraverso cui io mi formo come essere pensante; formo la mia critica, il mio pensiero, il mio essere uomo politico nel senso civile del termine. Collateral Landscape è un progetto iniziato circa quattro anni fa a seguito di altri reportage che avevo fatto. Era nato inizialmente come indagine sulla ricostruzione post bellica in Afghanistan. Il lavoro nel tempo è cambiato. Questo tipo di ricerche ti condizionano. Si tratta di un paesaggio che ti fa maturare, e insieme a te maturano nuove consapevolezze e anche nuovi desideri, nuove necessità di indagini, nuovi intendimenti.
Imparare dal lavoro e quindi dalla fotografia che fai vuol dire anche accettare di non portare a casa nessun risultato. Tornare a casa senza un risultato è, infatti, già un risultato; è come dire che vai in certi territori per raccontare la ricostruzione e poi questa ricostruzione non c’è. Ti chiedi se il lavoro possa essere accettato da magazine, photoeditor, editori. Ma comunque l’immagine non è mai sbagliata, la foto è già uno stato avanzato di un pensiero.
Dalle tue immagini si riesce a capire che il tuo punto di vista non risente di certi strereotipi legati al fare fotografia in ambito fotogiornalistico. Come sei arrivato a ciò? Perché nella maggior parte delle tue immagini non accade nulla?
Perché già esiste un’iconografia dell’azione. In realtà quelle sono delle scene fisse sulle quali può accadere tutto quello che già sappiamo e che già abbiamo visto. La scelta spetta a chi scrive il racconto. Si può farlo scrivere dalle persone che questi territori hanno vissuto o possiamo farlo scrivere alle immagini costruite. E per costruite, intendo immagini condizionate da un mercato o da una linea editoriale dettata, ma non da una necessità di informazione completa e reale.
Potremmo andare in qualsiasi archivio di agenzia fotogiornalistica, raccogliere una delle tante immagini che vengono selezionate dal World Press Photo e inserirla. L’azione c’è già stata, è già avvenuta; è stata raccontata; la possiamo immaginare e quindi ha davvero senso (ri)fotografarla quell’azione? Riguardo ad alcune immagini, siamo sicuri poi che quelle persone fotografate abbiano davvero ancora voglia di vedersi ritratte in quel modo? Io non voglio costruire delle icone, né edificare dei recinti culturali. Io voglio creare dei sistemi interrogativi. A me non interessa dare delle risposte.
Sei di base a Milano, cosa pensi del mondo della fotografia in Italia e in particolar modo come ti senti da fotografo in quest’ambiente?
Parto da una serie di tavoli/incontri sulla fotografia organizzati a Milano. Penso che sia stata una scelta molto interessante da parte dell’amministrazione comunale quella di organizzare incontri di questo tipo. Ciò che mi ha stupito è che in questi incontri ci sono ancora le stesse persone che per cinquanta anni hanno tenuto le redini del sistema dell’informazione e dell’editoria a Milano. Quindi è facile imputare a loro la condizione in cui versa il sistema dell’editoria in Italia oggi. Mi chiedo che senso abbia mappare il territorio per immaginare una politica legata al mondo della fotografia, e quindi alla comunicazione, facendo riferimento alle stesse realtà che si sono incancrenite, si sono fermate e non hanno più risorse.
Mi chiedo anche perché i giovani fotografi non abbiano partecipato a quegli incontri. Ma la risposta è semplice: da una parte non erano invitati, dall’altra forse non sono interessati a questo mondo e non credono che attraverso la politica sia possibile pensare a nuove strategie sostenibili e rigeneranti del sistema editoriale.
Sono convinto che la questione dell’editoria non possa essere considerata separatamente rispetto a quello che è la condizione dell’educazione alla comunicazione in Italia. Noi abbiamo dei forti problemi radicati nel sistema, sia di educazione che di professionalizzazione. Oltre all’assenza quasi completa di scuole adeguate in ambito di restauro, di archiviazione, di scuole che ti preparano alla gestione di archivi fotografici, alla manutenzione e all’ottimizzazione degli archivi come strumento attivo e dinamico.
Io ritengo che il fotografo non possa non preoccuparsi di ciò e che sia nostro compito impegnarci a livello civile sotto questo punto di vista. Non possiamo pensare che la crisi dell’editoria sia un qualcosa a se stante. Dobbiamo avere l’onestà di ammettere che c’è una mancanza di fondo, una mancanza che noi rintracciamo nel sistema dell’educazione in Italia. Molti dicono di portare la fotografia nelle università ma nelle università già c’è; invece dovrebbe essere portata nelle scuole elementari. Non possiamo considerare la fotografia in maniera cosi riduttiva, staccandola da tutto ciò che è comunicazione e avallando l’idea che la fotografia sia qualcosa d’altro. Non è arte e non è artigianato. Penso, invece, che la fotografia sia tutto questo e che sia un sistema molto complesso che ha radici ovunque.
© CultFrame – Punto di Svista 05/2013
BIO
Antonio Ottomanelli studia Architettura a Milano e Lisbona. Fino al 2012 è professore aggiunto presso il Politecnico di Milano. Nel 2009 fonda IRA-C, piattaforma pubblica per la ricerca nel campo delle strategie urbane e sociali. Ha realizzato reportage in contesti di crisi in Italia e all’estero ed è attualmente impegnato nello studio e nella documentazione della condizione delle città e dei territori in stato di conflitto, con particolare attenzione all’area mediorientale. Negli ultimi quattro anni ha lavorato in Afghanistan, Iraq e Palestina. I suoi lavori sono stati pubblicati in riviste di architettura quali Area, Abitare, AR, Domus. Nel 2011 entra a far parte di LUZ photo agency. Il suo lavoro è stato presentato in numerosi festival internazionali: Berlino 2010, circuito ARIA project; Perugia 2011-12, Festarch, II e III edizione; Brasile 2012, São Paulo Calling; Biennale di Dallas 2012; Istambul 2012, I Biennale del Design. Ha ricevuto due menzioni d’onore – Architettura e Arte – all’Internatonal Photography Awards Lucie Foundation 2011.
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