Documentare, informare, insegnare, divulgare

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis
© Christopher Williams. Angola to Vietnam, 1989. 27 gelatin silver prints, each frame 55.5 x 47.2 x 4.4 cm. Edition 3/5 +3AP. The Artist, Ringier Collection, Switzerland
© Christopher Williams. Angola to Vietnam, 1989. 27 gelatin silver prints, each frame 55.5 x 47.2 x 4.4 cm. Edition 3/5 +3AP. The Artist, Ringier Collection, Switzerland

© Christopher Williams. Angola to Vietnam, 1989. 27 gelatin silver prints, each frame 55.5 x 47.2 x 4.4 cm. Edition 3/5 +3AP. The Artist, Ringier Collection, Switzerland

La radice etimologica del termine documento fa riferimento al latino docère: informare, insegnare. Da ciò si può dedurre che documentare vuol dire non tanto testimoniare in maniera inoppugnabile la realtà di un fatto (ammesso che sia possibile farlo), cioè produrre una prova inequivocabile, quanto piuttosto comunicare agli altri qualcosa che si conosce totalmente, o in parte, e che, dunque, si può comunicare/insegnare/divulgare totalmente, o in parte.

Il modo attraverso il quale si debba “insegnare” ciò di cui si dispongono elementi non sembra essere legato all’idea limitante di “rappresentazione della realtà” o di raffigurazione oggettiva di eventi. Oltretutto, è possibile informare gli altri anche riguardo concetti non legati ad avvenimenti concreti. Inoltre, si può divulgare/comunicare un elemento reale (o realmente accaduto) anche attraverso la dilatazione espressiva, la dimensione metaforica, l’elaborazione linguistica e la ricostruzione artificiale. Quest’ultima modalità è praticata costantemente nell’ambito della cinematografia documentaria, settore della settima arte che appare estremamente elastico per ciò che concerne le varie possibilità di espressione in ambito documentaristico.
In cinema, l’impostazione documentaria può essere articolata attraverso innumerevoli percorsi creativi, tutti di pari dignità. Così, è possibile parlare di documentario sociale e storico, oppure di documentario poetico/visionario.  Ed entrambi “documentano”.

La questione sembra essere più controversa in ambito fotografico anche se in verità non si comprende esattamente il motivo. Un primo problema può sorgere dalla confusione generata dalla sovrapposizione acritica ed errata di termini come fotografia documentaria, appunto, reportage e fotogiornalismo. Tale questione ha finito per intorbidire le acque e per far passare l’idea che la pratica fotogiornalistica corrisponda in tutto e per tutto a quella documentaria. In tal senso, possiamo affermare come il concetto di fotogiornalismo sia collegato alla raffigurazione parziale (e sottolineiamo parziale)  di un fatto, mentre quello di documentazione può non riguardare un evento, una mutazione, oppure azioni umane.

Ma a parte questa differenziazione ciò che vogliamo evidenziare in questo articolo è la complessità del concetto di documentazione fotografica così come è emerso con chiarezza dalle proposte del direttore artistico della 55. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Massimiliano Gioni ha, infatti, presentato alcune variazioni decisamente interessanti dell’idea di documentazione visiva: dal grande mosaico di immagini in bianco e nero e a colori realizzato dal tedesco Michael Schmidt, intitolato Alimenti, alle illustrazioni delle acconciature femminili del nigeriano J.D. ‘Okhai Ojeikere, dai paesaggi aerei di Eduard Spelterini alle inquietanti visioni notturne di Kohei Yoshiyuki (The Park), fino alle riproduzioni di fiori di vetro di Christopher Williams (Angola to Vietnamed). Tutti questi lavori, pur nelle loro evidenti difformità contenutistiche e formali, possono essere inseriti nella “categoria” di fotografia documentaria.

Schmidt, grazie a un’impostazione totalmente libera (quasi contraddittoria) sotto il profilo linguistico-espressivo, descrive a suo modo il processo di produzione dei cibi. Al contrario J.D. ‘Okhai Ojeikere sceglie uno stile compatto e ripetitivo (praticamente seriale) per documentare le incredibili acconciature, dalle impostazioni quasi architettoniche, di alcune donne nigeriane. Ed ancora: mentre Spelterini lega la sua idea di documentazione a una pratica fotografica situata a metà strada tra l’esplorazione del mondo e la catalogazione geografico-scientifica, Kohei Yoshiyuki propone le immagini di una realtà segreta e notturna fatta di scambisti, esibizionisti e voyeur raffigurati nella “casuale normalità” dei loro comportamenti sessuali.

Ma ciò che maggiormente ci ha colpiti è il lavoro di Christopher Williams, il quale affidandosi a fotografi professionisti, ha prodotto un catalogo dettagliato di rappresentazioni di fiori di vetro della Harvard’s Ware Collection. Williams, dunque, ha generato uno schedario visivo di oggetti inorganici che alludono a elementi della natura. Ha, in sostanza, documentato senza operare direttamente alla macchina, e ha edificato una riproduzione di una riproduzione, cioè una “super-allusione” a un fattore della natura. E facendo ciò non ha fatto altro che documentare tale fattore senza voler utilizzare i segni della realtà per raffigurare la realtà stessa.

© CultFrame – Punto di Svista 07/2013

SU CULTFRAME. 55. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia – Fotografia all’Arsenale e al Padiglione centrale Giardini

Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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