L’indifferenza, tra pittura, letteratura e fotografia

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis

La questione del ritratto, in fotografia (e pittura), che ho in parte già affrontato nell’articolo intitolato Il confine tra sguardo e immagine, mi ha spinto a leggere con attenzione un libro del filosofo francese Jean-Luc Nancy, pubblicato nel 2002 da Raffaello Cortina Editore e intitolato Il ritratto e il suo sguardo. Il testo rappresenta un acuto studio riguardante l’enigma visuale e filosofico del ritratto inteso come (s)oggetto intorno al quale si edifica la struttura dello “spazio pittorico”.

Il tema che più mi ha colpito è stato quello che Nancy riassume nella definizione “il ritratto come raffigurazione della persona di per sé”, ovvero come “duplicato” di un soggetto umano totalmente distaccato rispetto alla sua reale (segreta) personalità e alle sue reti sociali correlative.

Cosa ci comunica un ritratto di questo tipo? Quale valore espressivo e filosofico ha una tale dimensione di rappresentazione? E, soprattutto, è possibile edificare un ritratto di questa natura? Fornire risposte definitive ovviamente non è possibile. Proverò, però, a estendere il mio “discorso” facendo riferimento a un altro passaggio fondamentale del libro di Nancy che riguarda un’affermazione contenuta, a sua volta, nel testo di Jean-Marie Pontévia intitolato Écrits sur l’art (William Blake & C, Bordeaux, 1986): “il ritratto è un quadro che si organizza intorno a una figura”. Tale dichiarazione, a mio avviso, pur nella sua ovvietà non fa altro che rendere ancor più complessa la questione, imponendo un’ulteriore fase di approfondimento.

Ma lo spunto per un nuovo sviluppo del mio ragionamento, la fornisce ancora una volta Nancy quando chiama in causa un dipinto di Jean-Antoine Watteau del 1717: L’indifférent. Il filosofo, infatti, sostiene (in modo destabilizzante) che l’opera di Watteau “si organizza attorno a una figura (umana) senza essere un ritratto”. Ma cosa raffigura L’indifférent” Semplicemente un soggetto maschile visualizzato secondo la modalità della figura intera. Tale soggetto è “bloccato” in una posa elegante (quasi da danzatore); sullo sfondo si vede parte di un paesaggio. Ma l’elemento più significativo sembra essere la totale e “sciocca” inespressività del volto.

Ebbene, la visione ripetuta di quest’opera (ritratto-non ritratto) mi ha convinto a percorrere un sentiero analitico in grado di oltrepassare i confini della pittura per compiere “deviazioni”, verso la letteratura e la fotografia, utili per non rimanere ingabbiato in un tentativo frustrante di identificazione di un senso univoco del ritratto.

Jean Antoine Watteau

Jean-Antoine Watteau. L’indifférent. Olio su tela, 1717

In primo luogo, è doveroso evidenziare come questo dipinto di Watteau sia spesso collegato (a livello filosofico) a una novella di Marcel Proust che porta lo stesso titolo. Lo scrittore francese la scrisse nel 1893 e la pubblicò su una rivista letteraria tre anni più tardi. Poi fu totalmente dimenticata fino a quando fu riscoperta nel 1978 e ripubblicata. Questo testo narra le vicende di un “indifferente”, privo di qualsiasi fascino e considerato una sorta di nullità vivente. Proprio questo aspetto intriga fortemente una vedova parigina che si innamora di lui. La donna cerca disperatamente di sedurlo e di comprenderne l’insondabile mistero, ma senza alcun successo.

La novella di Proust, a livello visuale, sembra far riferimento più che al dipinto omonimo di Watteau a un’altra opera dell’artista francese: Gilles. Questo quadro (elaborato tra il 1718 e il 1719) è legato alla maschera teatrale di Pierrot e fu commissionato da un amico attore. Nell’opera è raffigurato frontalmente un Pierrot, appunto, in una posa rigida e monolitica. Il suo volto è molto più che triste: è totalmente amorfo e inespressivo.
Alla luce di quanto appena scritto, la vacuità impenetrabile proustiana de L’indifférent, dunque, potrebbe aver preso ispirazione da Watteau, contribuendo a determinare una linea estetica del ritratto di concezione “interdisciplinare”.

Jean Antoine Watteau

Jean-Antoine Watteau. Gilles.  Olio su tela, 1718-1719

Il mio discorso, così, non può che sfociare nel territorio della fotografia contemporanea, poiché appare sempre più evidente come il “genere” ritratto sia connesso proprio alla dimensione meticcia pittorico-letteraria di cui ho appena parlato. Vorrei, a tal proposito, indicare due casi: quelli della finlandese Elina Brotherus e dell’olandese Rineke Dijkstra.

La prima è artefice di una fotografia legata alla rappresentazione della figura umana, a volte in connessione con il paesaggio, che sembra ispirata soprattutto (ma non solo) alla pittura, di impostazione romantica, di Caspar David Friedrich. In particolare, Elina Brotherus utilizza il proprio corpo come fattore di autorappresentazione e lo colloca nello spazio dell’inquadratura in maniera statica. Ebbene, il suo volto è spesso sospeso in un’espressione che ricorda proprio i visi fatui dei soggetti ritratti da Watteau. La figura umana nell’estetica della fotografa finlandese rappresenta una sorta di enigma, di ossessione iconografica nei riguardi di un problema irrisolvibile, come è senza dubbio quello del rapporto tra l’essere umano e il mondo. La sensazione che si prova fruendo le sue opere è essenzialmente di straniamento, esattamente come quella che si avverte di fronte a taluni dipinti di Watteau.

Nel caso di Rineke Dijkstra il discorso sull’indifferenza e sulla concezione del ritratto come illustrazione di un soggetto “di per sé” è ancora più evidente. La sua serie di individui immortalati in costume da bagno lo testimonia in maniera molto precisa. Esseri umani, ripresi nella loro quasi totale nudità. Corpi ritratti frontalmente che cercano di comunicare niente altro che loro stessi (e l’opera fotografica finisce per organizzarsi intorno a loro). Le espressioni dei volti sono spesso (ma non sempre) indecifrabili. Nessun tentativo di rendere estetizzante l’immagine è messo in atto dall’artista olandese che, a tutti gli effetti, non utilizza il ritratto con intenzioni di tipo psicologico e/o sociologico.

In conclusione, questo breve excursus tra pittura, letteratura e fotografia contemporanea apre un’ennesima linea di studio per Punto di Svista nel solco della nostra ricerca interdisciplinare e dei collegamenti tra la fotografia e le altre arti. E in tal senso, il ritratto (insieme al paesaggio), sembra essere il “luogo” giusto per poter elaborare idee ed esaminare in modo molto approfondito tutte le possibili giunzioni tra discipline artistiche apparentemente distanti tra loro.

© CultFrame – Punto di Svista 07/2013

Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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