In tutti i campi del sapere e delle sue applicazioni, così in fotografia, l’etica ha un suo ruolo. Nasce con le attività umane, è onnipresente, e tende a orientarne i comportamenti all’interno delle società. Questa descrizione è concisa e non esauriente, anche perché proviene da quell’ambiente di studi filosofici teorici comunemente definita Filosofia pratica che concepisce il sapere pratico come aderente all’esperienza, in contraltare con l’altra, la Metaetica analitica, la quale propugna una teoria rigorosamente scientifica tesa ad individuarne con precisione i motivi, i contrasti, le tendenze.
Voglio tentare di mettere alla prova un quesito che mi accompagna da tempo, sicuro, sin da ora, di due questioni rilevanti: la prima è che l’etica in fotografia è continuo argomento e terreno di innumerevoli scontri dialettici, culturalmente rilevanti in seno agli operatori e ai fruitori di fotografia, pertanto dissertazione sentita quotidianamente; la seconda è che questa pretesa ad accennare e a esaminare questo ambito ha valenza solo come una mia necessità all’interno della mia esperienza personale, del mio passare attraverso e, rende palese, una propensione ad avvicinarmi più alla teoria della Filosofia pratica che non a quella della Metaetica analitica. Quale o quali elementi possono caratterizzare l’etica all’interno delle prassi consuete del fare, proporre e fruire della fotografia?
Almeno un argomento è evidente: il ruolo sociale della fotografia come strumento efficace e pertinente la divulgazione e lo studio di informazioni e documenti sotto forma di immagini. L’uso poi, specifico negli innumerevoli campi di applicazione, ne sottolinea la sua portata nella società odierna, che non si fa scrupoli di sorta per renderla portavoce delle visioni relative ai propri umori, bisogni e interessi. La mia riflessione parte, come di consuetudine ho proposto più volte con altri articoli sulla nostra testata, dal cercare di mettere in chiaro le caratteristiche del medium fotografico, capovolgendo l’attenzione, almeno momentaneamente, dalle questioni che scaturiscono normalmente dall’esaminare un contesto etico. E appunto, come dicevo, partirò dall’elemento primario, la luce (che non è il solo, sia ben chiaro) il quale, a mio avviso, attiva il processo tecnologico che noi comunemente chiamiamo fotografia, sia analogica che digitale.
Sostenendo che l’elemento luce abbia una sua alterità e cioè una sua diversità, una non identicità con l’immagine che noi ne ricaviamo, pur essendone l’artefice principale, mi viene da supporre come l’uso, attraverso il dispositivo tecnologico fotografico, sia del tutto arbitrario con il fattore di veridicità che noi gli attribuiamo alla fine del processo di materializzazione di un’immagine. A tutti gli effetti è solo nel passaggio forzato attraverso l’obiettivo della fotocamera che assume le caratteristiche di un’immagine fotografica, così abitualmente accettata, e siamo perfettamente a conoscenza che la parte ottica è costruita per essere il più verosimile a una parte del nostro apparato visivo; pertanto trasferiamo in un oggetto con rilevanti ambiguità, con fiducia e a volte con disonestà, le nostre necessità di attestazione di un evento. Tale condizione è già stata posta in evidenza da Mario Costa con una pertinente osservazione:
“Confondere il senso della fotografia con il senso della cosa fotografata è il malinteso concettuale di fondo di molte riflessioni sinora applicate a sostegno di un’interpretazione della fotografia.”
Questa è una citazione che ho già riportato in un’altra riflessione (Luce, tempo, memoria). La presento di nuovo perché ne avverto una profonda e latente traccia di significato, intuisco in questa espressione un qualcosa di importante su cui riflettere proprio in merito a quella dialettica che potremmo contestualizzare come etica e fotografia.
Non confondere i piani di senso, questo è il punto nodale della questione. Distrarsi e trasferire il senso dell’accadimento con il senso dell’immagine è concettualmente arbitrario, a volte pericoloso ed eticamente scorretto: come quando operiamo una traduzione da una lingua a un’altra, se un traduttore non conosce a fondo l’autore di un testo, la lingua che usa e la cultura in cui è immerso può facilmente ingannarsi sulle sue effettive intenzioni. Qui si arguisce quanto sia fondamentale la conoscenza per attivare un atteggiamento e una scelta etica. Non vorrei che si prenda alla lettera questo ultimo esempio poiché le dinamiche delle traduzioni sono molteplici, partendo da quelle delle prassi orali, ma come metafora mi sembra che colga il nodo della questione.
Possiamo a questo punto chiamare in causa quei sentimenti che generalmente definiamo universali: amore, pace, amicizia, fratellanza, giustizia etc., ma che non sono (forse non lo sono mai stati) universali, bensì funzionali. Abbiamo sotto gli occhi e negli orecchi, tutti i giorni, l’uso indiscriminato dei media che sono funzionali ai criteri, ai poteri (individuali e collettivi) e non a quei valori che per altro, talvolta, si spacciano di possedere. Se, come accennato pocanzi, accettiamo la fotografia come strumento efficace e pertinente la divulgazione e lo studio di informazioni e documenti sotto forma di immagini, dobbiamo avere sempre presente la sua non aderenza precisa e incontestabile con quella così detta realtà con cui ci poniamo in relazione e che si cerca di comprendere. Certo, l’impegno necessario per mantenere sempre vigile l’attenzione sull’argomento è notevole, ma il nostro ruolo e l’atteggiamento utile come cittadini richiedono costantemente sforzi di approfondimento e conosceza.
Il minimo indispensabile a cui eticamente possiamo tendere è quello di attivare un comportamento responsabile: critico rispetto a chi o cosa viene fotografato e altrettanto verso chi userà o usufruirà della fotografia come documento e informazione.
© CultFrame – Punto di Svista 11/2013