1. Il nodo.
Dagli anni Trenta dell’Ottocento – e fino all’avvento tardo novecentesco del digitale – il campo della fotografia è forse stato il luogo in cui più evidente è parso essere lo spostamento dell’attenzione dal (tendenzialmente) monumentale o memorabile al (materialmente) documentale o rammemorato.
Il riquadro fotografico ritaglia una porzione di mondo, di impressioni retiniche, sulle cui misure palpabili e impalpabili si ristruttura e si riformula l’intero orizzonte percettivo dell’occidente (e delle culture via via occidentalizzate).
Lo spostamento sembra andare da una retorica a un’altra: da un senso della traccia individuabile nell’esemplare o nel celebrativo (quando non nell’enfatico), a un senso invece rinvenibile – per bagliori e frammenti – nell’effimero, nell’area visibile e insieme smarginata del documento. L’effimero e il documento sarebbero anzi sono momenti importanti – rilevati – per l’individuo, per il fotografo o il committente della fotografia, è indubbio. Tuttavia si percepisce nell’effimero, a fronte della pittura o della “fotografia come pittura”, uno spostamento di campo, un terremoto o smottamento percettivo che scuote l’asse delle attese di chi fissa il riquadro di carta o di materiale impressionato. La galleria di gesti e pose, di statue virili e muliebri, da ambiente classico-eroico diviene serraglio seriale-comico. O monotona sequenza di ritratti borghesi.
Con l’irrompere dell’effimero, del dettaglio, dello scarto, della maceria, del ritaglio, di ciò che potenzialmente sempre è sfocato o mal esposto, avanza sulla scena qualcosa di laterale, di meno definibile. Qualcosa che parrebbe in contraddizione frontale con un’idea di fotografia come camera delle meraviglie e luogo della memoria. Ci si trova, di fatto, in presenza allo stesso tempo del futile e del documento, dell’inutile e della registrazione. (Dunque si è nella situazione di fissare negli occhi quel nastro di Moebius che è il senso-non-senso che Kant aveva iniziato ad affrontare meno di mezzo secolo prima della nascita della fotografia).
Cosa succede poi al chiudersi del Novecento? Che tipo di spostamento di campo circonda, orienta, muove il digitale (venendone a sua volta riorientato, spostato, mutato)? Si tratta forse non più di una presa d’atto (documentale appunto) del frammentario, del minore, del tracciato-obliabile; bensì di una vaga e neanche poi tanto vaga ombra e atmosfera (percettiva) che (pre)avverte come costantemente (ri)variabile l’oggetto che ha di fronte.
Non più l’inconsistenza bensì la variabilità estrema prende parola. Prende campo.
2. In sintesi.
Dopo Daguerre il passaggio o il trascolorare da pittura a fotografia aveva segnato per certi aspetti un transito da una retorica all’altra, ossia da una retorica del durevole a una retorica del labile (della traccia incerta, del profilo preciso quanto socialmente irrilevante), fondando tuttavia una mutazione più radicale, di ordine percettivo. La lacuna che è ai margini del nostro campo di osservazione ed esaltazione del senso si avviava a prendere posto nel quadro.
Con il chiudersi del Novecento, a mio avviso, e con il passaggio al digitale, forse si compie, si completa o si precisa meglio quella che non è pura transizione di retorica, da stile a stile, bensì il darsi di un mutamento sistemico, ampio, di paradigma.
Il processo iniziato con Kant nel 1790 e con la fotografia negli anni Trenta dell’Ottocento cresce in definizione al chiudersi del XX secolo. Non abbiamo cioè mutazione nel contesto della retorica (e) della rappresentazione, ma il profilarsi evidente di un ampio fantasma che circonda l’intero ambiente entro cui qualsiasi retorica dà forma a qualsiasi rappresentazione.
Precisando ancora. Ogni idea di ritocco, collage, fotomontaggio, operazione materiale su supporti cartacei, presente fin dai primissimi passi della storia della fotografia, è un’idea di “applicazione” (strumentale) di una qualche forzatura, sì, ma entro le leggi retoriche di fondo della percezione e rappresentazione del reale – come si davano nel tempo della nascita della fotografia.
Si avevano certamente montaggi, stravolgimenti, mutazioni, e insomma un pre-digitale. (Che si sarebbe ampiamente sbizzarrito, per esempio, nei primissimi lungometraggi muti: pensiamo alle tante pellicole di fantasmi, case infestate, che di operazioni manipolatorie non solo sul montaggio facevano largo uso). (Appunto: “uso”. Di strumenti si trattava).
La mia tesi è che gli anni novecenteschi che precedono l’esplosione del digitale, e poi il digitale in pieno, non riconducano invece la manipolazione a strumento se non nelle interpretazioni ingenue. Incertezza del percepito, traccia, apertura, differenza costante, non sono – nelle arti avanzate e nei testi di scrittura di ricerca del secondo Novecento e in fotografia – l’eco di un uso strumentale di “mezzi” che intervengono dentro una retorica comunque invariata.
Sono invece, a loro volta, il segno di uno specchio messo definitivamente di fronte a variazioni antropologiche ormai attestate in profondità, e verificabili. Nella società, nella mente dell’occidentale di secondo Novecento. Una mente radicalmente mutata (e non per mere ragioni economico-sociologiche) rispetto a quella che “applicava” degli “strumenti” (entro una retorica visiva che in tal modo tuttavia iniziava a mutare) a metà Ottocento.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2013