Per anni ho condotto una battaglia culturale legata al World Press Photo, manifestando in modo diretto dubbi sul senso (reale) di questa operazione e ponendo in maniera chiara il problema dell’autoreferenzialità, tipica di un premio di questo genere (autoreferenzialità che, ad esempio, in ambito cinematografico è possibile riscontrare nel premio Oscar). Lo scorso anno giunsi a chiedere la sua abolizione in un mio articolo aprendo il pezzo così: “Catalogo degli orrori e dell’estetica splatter”. Si, perché la deriva, relativa alla spettacolarizzazione del sangue e dell’orrore, che aveva preso questo riconoscimento internazionale era diventata ormai insopportabile. Si coglieva, infatti, nell’inquietante scivolamento in un tragico abisso voyeuristico la degenerazione della pratica fotogiornalistica, sempre più legata a un sensazionalismo narcisistico autoriale privo di umanità.
Ebbene, così come in occasione delle edizioni passate ho puntualmente stigmatizzato le questioni sopra elencate, oggi devo oggettivamente riconoscere che in questo febbraio 2014 è stata messa in atto una potente sterzata che ha riportato il World Press Photo in una dimensione della narrazione del mondo più vicina al senso profondo del racconto fotografico. Non mancano del tutto i soliti inutili compiacimenti horror (purtroppo fisiologici in alcuni settori del fotogiornalismo internazionale), ma la sensazione è che questa volta la giuria abbia voluto premiare non tanto l’effetto shock quanto piuttosto la sostanza reale dell’opera, al di là della sua superficie.
L’immagine Signal di John Stanmeyer (World Press Photo of the Year 2013) è in tal senso emblematica. In quest’opera, dei migranti africani cercano di cogliere un segnale telefonico mentre si trovano sulla costa di Gibuti. Ebbene, pur non essendo una fotografia di grande interesse sotto il profilo strettamente fotografico (anzi la potrei definire banale, se non addirittura scolastica) mostra una delicatezza contenutistica evidente e, soprattutto, lascia libero il fruitore di costruire una propria storia e di immaginare in modo libero i sentimenti soggettivi dei personaggi ritratti. Si tratta, dunque, di un’opera aperta che stimola la riflessione e non la blocca in una forma di spettacolarizzazione fine a se stessa.
Tra gli altri lavori premiati, segnalerei forse solo The Last Outfit of the Missing di Fred Ramos, un catalogo visivo di abiti appartenuti a vittime della criminalità del triangolo Honduras, Guatemala, El Salvador che non propone nulla di nuovo per quel che riguarda l’espressione fotografica ma che rappresenta un onesto lavoro sulla questione della memoria applicata alla tragedia sociale di un’area geografica di cui si sente parlare non così spesso (almeno nel nostro paese). Tre i premi andati agli italiani: Alessandro Penso, Gianluca Panella e Bruno D’Amicis. Ma la questione “nostrana” forse meriterebbe un approfondimento a parte.
Infine, due riflessioni. La prima: la sostanziale mutazione avvenuta in questo febbraio 2014 non cancella le mie forti perplessità non solo sul World Press Photo ma in generale su tutti quei riconoscimenti in cui un settore creativo-culturale celebra se stesso. L’autoreferenzialità e i giochi di potere di piccoli-grandi potentati sono sempre dietro l’angolo e certamente creano più danni che benefici. La seconda: il World Press Photo è, in ogni caso, solo la facciata di un settore molto parziale della fotografia internazionale e, dunque, i soliti sterili trionfalismi che emergono ogni anno all’annuncio dei premi non sono altro che la cartina di tornasole del provincialismo di una parte dell’ambiente fotogiornalistico, spesso troppo concentrata a guardare il proprio ombelico.
© CultFrame – Punto di Svista 02/2014
(Pubblicato su L’Huffington Post Italia)
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