È molto interessante come un noto quotidiano nazionale definisce gli scatti e i lavori che si sono aggiudicati i riconoscimenti assegnati nell’ambito del Sony World Photography Awards 2014: “le fotografie più belle del mondo”. Belle? Cosa vuol dire? Tutto e niente. Ma questa semplificazione giornalistica, comprensibile a livello di comunicazione, fornisce al lettore e all’appassionato l’idea che la fotografia (ancor più quella concepita per partecipare a una competizione internazionale) non sia semplicemente il prodotto di un pensiero, di uno sguardo, di un racconto e di un lavoro serio, del desiderio di un autore di mettere a fuoco una storia o le vicende di esseri umani, ma semplicemente un’attività basata sulla elaborazione di immagini fondate su un concetto creativo performativo ed effettistico, dunque totalmente superficiale.
Eppure, paradossalmente la definizione di cui stiamo parlando, a un’attenta lettura, risulta appropriata alla sostanza delle opere premiate. Si tratta, infatti, di una successione di scatti tutti, o quasi, concepiti e realizzati attraverso gli stessi identici stilemi, ormai diventati degli stereotipi talmente invasivi da risultare immediatamente riconoscibili e soffocanti. I colori gravidi e densissimi (totalmente inverosimili) si sprecano, i forti contrasti sono diventati la parola d’ordine (ma fino a qualche tempo fa non si fotografava tutto bianco, con colori slavati?), le inquadrature create con lo stampo. Non un guizzo creativo, non una novità, non un frame privo di luoghi comuni. Immagini belle, appunto.
La questione che a questo punto si pone è: i giurati hanno puntato la loro attenzione sulle opere veramente significative (e avremmo tutto il diritto di cadere in una devastante depressione) o hanno deciso, con razionalità, di spingere in maniera inequivocabile una strada espressiva, in sostanza di dettare e pompare una moda?
In tutti e due i casi la situazione sarebbe triste, poiché a farne le spese è sempre la fotografia, ridotta da una parte a essere una ripetitiva pratica estetizzante e costretta dall’altra a soddisfare mode eterodirette che nulla hanno a che fare con la creatività individuale, con la ricerca personale e con l’esigenza espressiva del singolo fotografo. L’immagine come elemento di una catena di montaggio di un sistema che dice ai fotografi semplicemente cosa vuole da loro, dunque.
A mio modesto avviso il Sony World Photography Awards (e lasciamo da parte tutte le questioni che riguardano i presunti motivi per cui una multinazionale potentissima si fa promotrice di un premio) pone ancora una volta il grande problema dei premi internazionali che, come dico ormai da tempo, portano più scompensi al mondo della fotografia che benefici.
E per chiudere, vi confesso che nonostante le mie posizioni sul World Press Photo siano sempre state molto critiche (e continuo a sostenere queste posizioni) non ho difficoltà a riconoscere che il WPP rispetto a Sony World Photography Awards sembra quasi il Premio Nobel. E, comunque, anche sul Premio Nobel ci sarebbe da discutere.
© CultFrame – Punto di Svista 03/2014
SUL WEB
WPO – World Photography Organization – Sony World Photography Awards