Ho deciso di affrontare in questo post alcuni temi rintracciabili in operazioni visuali totalmente diverse una dall’altra (apparentemente) e che sono state concepite per situazioni, per certi versi, opposte (anche se ormai taluni confini stanno diventando sempre più flebili): la questione del limite posto dal tempo della durata di un’opera visiva (per quel che riguarda la prova di resistenza a cui lo spettatore viene sottoposto), quella del meticciato linguistico (in ambito artistico) e quella, non meno significativa, del target che si intende colpire con un prodotto audiovisivo.
Partiamo dal tormentone degli ultimi mesi. Si tratta di un brano musicale intitolato Happy, del cantante Pharrell Williams. Ovviamente, è stato prodotto un videoclip promozionale (della durata di circa 4 minuti) che è visibile sulle emittenti televisive, ma questa piccola prova rappresenta solo una porzione minuscola di un’operazione comunicativa ben più articolata e acuta.
Il collettivo (di artisti francesi) autore del progetto, We are from L.A., ha infatti concepito un video interattivo, visibile on line, composto da 360 videoclip della durata di 4 minuti che portano la fruizione complessiva a ben 24 ore. Ogni navigatore può, però, ricomporre autonomamente il proprio personale videoclip di Happy scegliendo un orario particolare della giornata e la tipologia della situazione, nonché il protagonista preferito.
Tutti i video sono impostati nello stesso modo: un personaggio (noto o sconosciuto) si muove in un ambiente specifico (posto di lavoro, la strada…) e interpreta come meglio crede lo spirito gioioso e liberatorio della canzone. Le inquadrature sono ampie e contestualizzano la perfomance dei soggetti ripresi, i quali (quasi sempre) si lanciano in danze sfrenate. La macchina da presa precede (arretrando) la figura umana con una modalità frontale (quasi oggettiva), mantenendo sempre in chiara comunicazione il corpo (e il suo movimento) con la realtà circostante.
Emerge da questa lunga serie di performance visivo/corporee una dimensione visuale moderna e connessa fortemente alle tendenze della fotografia contemporanea e del cinema di alcuni autori ben identificabili. Così, se da una parte sono evocati fotografi come Stephen Shore, Joel Sternfeld, Jeff Wall (e addirittura William Eggleston) dall’altra si percepiscono gli echi dello stile espressivo di Wim Wenders, David Lynch e anche di Joel & Ethan Coen. Quella messa in piedi dal collettivo We are from L.A. è, in sostanza, un’abilissima e intelligente iniziativa comunicativa densa di cultura fotografica e cinematografica che abbatte i limiti della fruizione temporale tradizionale e che “costringe” lo spettatore a divenire, di volta in volta, co-autore di un video che, grazie alle innumerevoli combinazioni consentite, può mutare in maniera completa e sorprendente.
Ebbene, questa idea messa a punto da We are from L.A. per il cantante Pharrell Williams riporta la mia mente al film artistico che ho visto nell’ambito della 54° Esposizione d’Arte Internazionale di Venezia. Era il 2011 e Christian Marclay proponeva con The Clock, un film della durata di 24 ore (esattamente come il video Happy). Il visitatore della Biennale di Venezia poteva immergersi per un giorno intero (senza interruzione) in un percorso visivo basato sulla concatenazione di sequenze tratte da pellicole (molto diverse tra loro e alcune molto note) che contenevano inquadrature in cui erano visibili orologi che indicavano l’ora esatta in cui avveniva la fruizione da parte dello spettatore.
Il risultato di quello che superficialmente può apparire come un gioco/esperimento mi sembrò veramente sorprendente. L’impressione, infatti, fu quella di assistere a un’opera filmica elaborata secondo un filo narrativo preciso e logico.
Ma a sua volta questo film di Marclay aveva riportato il mio pensiero a un altro “esperimento” di Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello: Verifica incerta. Nel 1964, i due autori, utilizzando 15.000 metri di pellicola scartata da opere americane, edificarono un film che si manifestava come oggetto in grado di “produrre senso” pur se costruito come un mosaico informe incentrato su “tessere” visive totalmente decontestualizzate rispetto ai lavori per i quali erano state realizzate.
E se volessimo proseguire nell’ambito di questo processo di connessioni sorprendenti tra opere visuali (e non) potremmo forse continuare a lungo. Troveremmo sempre una costante volontà di abbattimento dei confini linguistici e del concetto convenzionale di tempo nonché il tentativo di porre ogni tipo di pubblico possibile di fronte al senso del rapporto tra immagine e costruzione narrativa.
© CultFrame – Punto di Svista 04/2014
(pubblicato su Huffington Post)