Abbiamo visto la recente intervista pubblicata sul sito di Rai News a Gianni Berengo Gardin. Cristina Bolzani ha posto a uno dei decani della fotografia italiana alcune interessanti domande sul suo lavoro, in relazione anche alla sua attività in ambito editoriale.
Ebbene, è inutile dire quale sia il rispetto che si deve a questo fotografo che ha attraversato con il suo sguardo l’evoluzione della società della seconda parte del Novecento e di questa prima parte di terzo millennio. Ma proprio perché si deve considerazione e riguardo nei confronti di una figura significativa appare necessario collocarla al centro del dibattito culturale non semplicemente registrando asetticamente le sue affermazioni ma anche, e soprattutto, ponendole all’interno di una discussione viva e attuale, e civile (si intende), che non deve essere appiattita su una santificazione sterile e acritica che pensiamo possa non piacere allo stesso Berengo Gardin.
In particolare, vorremmo porre l’attenzione su alcune dichiarazioni del fotografo che riteniamo degne di essere commentate e analizzate, nell’ambito di un dibattito culturale pacato ma puntuale. Riportiamo uno stralcio della sua intervista:
“Io non sono un artista, non ci tengo assolutamente a passare per un artista. Oggi i giovani fanno le cosiddette fotografie d’arte che a me non interessano, perché copiano quello che hanno fatto i pittori con cinquanta, cento, anni di ritardo”.
Ebbene, Gianni Berengo Gardin ha tutto il diritto di non sentirsi un artista. Ognuno sente di essere ciò che vuole e il rispetto, in tal senso, è dovuto. Ci stupisce, però, la superficialità con la quale usa il termine “artista” e il modo un po’ banale con il quale sminuisce il rapporto tra fotografia e arte.
Berengo Gardin fa di tutt’erba un fascio, senza distinzioni, senza dubbi, senza se e senza ma. Sarebbe importante che il grande fotografo (non artista) facesse queste dichiarazioni in un confronto pubblico e democratico con fotografi-artisti (e non), critici, galleristi, storici della fotografia e direttori di festival e musei. Forse uscirebbe fuori qualcosa di più sostanzioso e complesso, di più articolato e meno monolitico rispetto al giudizio insindacabile che ha espresso nella sua intervista.
Ancora di più, ci stupisce l’atteggiamento nei riguardi dei cosiddetti “giovani che fanno le fotografie d’arte” (cosa significa poi questa catalogazione?). Si percepisce nei riguardi delle giovani generazioni che si avvicinano alla fotografia un senso di diffidenza e distacco che rappresenta a nostro avviso solo una mancanza di curiosità e apertura, di sbagliata assenza di desiderio di comunicare che proprio un fotografo molto esperto e intelligente (come è senza dubbio Berengo Gardin) dovrebbe invece avere.
Ancora uno stralcio dell’intervista:
“A me interessa la foto di documentazione perché il vero DNA della fotografia è la documentazione”.
Ecco un’altra affermazione a nostro avviso discutibile che suona più come una sentenza inappellabile che come una legittima opinione. Quale sarebbe il DNA della fotografia? Cosa si intende per documentazione? Già solo il significato e la radice etimologica della parola documentazione potrebbero portarci a discussioni infinite. E, dunque, come è possibile pronunciare frasi così nette? Sembrano più che altro tentativi di mettere confini e paletti (senza senso e autoghettizzanti) piuttosto che esternazioni destinate ad alimentare un dibattito culturale aperto.
Il nostro pensiero è che Gianni Berengo Gardin sia esponente di un settore della fotografia (reportage e fotogiornalismo) che in Italia arranca e fatica (nonostante nel mondo vengano fatti discorsi molto più liberi e moderni) a distaccarsi da quel senso di inferiorità (nei riguardi delle altre forme di espressione e comunicazione) che l’universo stesso della fotografia italiana si è cucito addosso come una sorta di inutile e controproducente corazza autoprotettiva. La fotografia come pratica professionale (rispettabilissima) e come pratica di documentazione (anche questa rispettabilissima se non addirittura fondamentale) sembra sempre voler marcare il proprio territorio sminuendo chi sperimenta, chi ricerca e chi vuole andare avanti.
In verità, si tratta di un falso problema, poiché la fotografia di documentazione e quella artistica non sono in conflitto e non possono sminuire una la natura e l’importanza dell’altra, al punto che spesso queste due “modalità fotografiche” si incontrano e si sovrappongono. E per comprender ciò, basta visitare le numerose manifestazioni internazionali (biennali d’arte, in special modo, e festival della fotografia) che ogni anno dimostrano ciò.
Vorremmo dire a Gianni Berengo Gardin di guardare ai cosiddetti giovani fotografi d’arte (utilizziamo questa formula riduttiva per semplificazione) con un po’ più di considerazione e prudenza, non per apprezzarli tutti senza differenze (ci mancherebbe… ci sono esperienze significative e altre da dimenticare), ma per accostarsi con maggiore lucidità a un mondo che magari non gli appartiene ma che non può essere liquidato con faciloneria. Aprirsi all’altro, specie nella pratica creativa e culturale, non significa rinnegare le proprie idee, significa voler crescere, sempre.
© CultFrame – Punto di Svista 05/2014
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Rai News. L’intervista a Gianni Berengo Gardin