Il problema a cui va incontro un’opera concepita sulla scia di fenomeni di attualità è sempre quello di ritrovarsi inattuale una volta messa in circolazione. Pur scontando questa pecca, data la rapidità con cui si muove il presente, il documentario sul movimento Femen che Kitty Green ha girato nel 2012 e presentato a Venezia 2013, alla fine del 2014 ha il pregio di costituire quasi una testimonianza storica. Sin dal titolo, che in italiano è un adattamento ripulito del più esplicito Ukraine Is Not a Brothel, si fa riferimento alla matrice nazionale iniziale di un movimento ormai diventato globale. Il titolo del documentario si riferisce anche alla lotta di Femen contro un’Ucraina meta di turismo sessuale e bacino per la “tratta delle bianche”.
Di tutte le interessanti quanto spinose questioni nate dalla traduzione della militanza Femen in contesti “altri” il documentario non dice, dacché esso si conclude proprio con la partenza di una delle militanti, Inna Shevchenko, per Parigi dove oggi ha sede il quartier generale del movimento e dove lei e alcune compagne hanno ottenuto il diritto di asilo politico. L’ambizione documentaria del film rimane quindi circoscritta a un periodo in cui il problema della ricezione delle ormai famose azioni a seno nudo in contesti diversi da quello ucraino iniziava appena a porsi.
Le proteste anti-velo organizzate in Francia con l’associazione Ni putes ni soumises, i dubbi di chi ha ritrovato in Femen echi dell’estetica Front National (da cui oggi più che allora Femen tiene a smarcarsi), le accuse di opportunismo mediatico e affaristico, quelle di islamofobia mosse anche dalla tunisina Amina Tyler prima loro sodale poi detrattrice e oggi non si sa… insomma, tutto ciò non c’è così come non c’è neppure, dopo le critiche venute da sinistra, l’interessante risignificazione politica del movimento in chiave progressista avvenuta di recente nel contesto delle manifestazioni reazionarie e familiste che in Francia si sono opposte al progetto di legge per il matrimonio omosessuale supportate anche da movimenti come Homen e Antigones ostili a ogni forma di femminismo, quello di Femen compreso.
L’australiana Kitty Green è invece sbarcata a Kiev più di due anni fa per raccontare un gruppo di giovani donne che iniziavano allora ad acquisire fama mondiale e per cercare di ricostruire a volo d’angelo il loro quotidiano, le forme della loro militanza. Il suo film si sofferma sui comodini ricolmi di prodotti di bellezza, sui lividi guadagnati sul campo come medaglie al valore, sui laptop sempre connessi a Skype. Vediamo di Femen fotografie dell’epoca in cui le ragazze ancora militavano vestite, sentiamo, per quanto brevemente, la voce di chi ha lasciato il gruppo perché non disposta a spogliarsi. Assistiamo anche a performance assai più dirompenti di quelle attuali come quella compiuta con l’imponente Alexandra Nemchinova, un quintale di coraggio e ironia in perizoma, attorno a cui le compagne, in tute da lavoro rosa acceso, tendono un cordone lanciando ai passanti l’allarme “bomba-sexy”. Nulla è però problematizzato o approfondito, né l’efficacia delle forme di lotta scelte, né quanto l’immagine di Femen possa essere portatrice di rottura, né il rapporto tra norme di genere e obiettivi politici di un movimento che oggi si presenta come femminista ma che all’epoca sembrava temere l’appellativo.
Il documentario di Green è sceneggiato tutto intorno a una rivelazione ovvero che Femen sarebbe nato dall’idea di un deus ex-machina di nome Viktor, patriarca paradossale che imponeva alle ragazze di lottare contro il patriarcato a suon di insulti e disciplina. Se alla luce di questa rivelazione sembra stagliarsi sulle Femen l’ombra del dominio patriarcale e della manipolazione maschilista, in realtà questa narrazione è totalmente funzionale alla legittimazione attuale di Femen come movimento autenticamente libero e liberato perché risorto dopo l’uccisione simbolica del padre. Tale narrazione, oltre all’inattualità di quanto di Femen ci viene mostrato, rischia di raccontare al pubblico italiano una versione molto semplificata e ingenua del movimento in questione per cui non possiamo che consigliare di guardare questo documentario da una distanza critica che lo interpreti come un tassello, per di più embedded, di una realtà assai più ampia.
© CultFrame 06/2014
TRAMA
Femen nasce come un movimento di ragazze ucraine che si battono contro la prostituzione e il maschilismo. Kitty è una documentarista che arriva a Kiev per incontrarle e raccontare le loro lotte ma finisce per scoprire che all’origine del movimento c’è Viktor. Viktor ammette di aver elaborato una macchina paradossale per la distruzione del potere maschile e di averlo fatto, forse inconsciamente, per sedurre le belle militanti di Femen. Dopo gli esiti inquietanti di un’azione in Bielorussia e mentre in Ucraina sembra materializzarsi il pericolo del carcere, una delle ragazze riceve un invito a trasferirsi a Parigi e decide di partire per ricreare lì il movimento.
CREDITI
Titolo: Femen. L’Ucraina non è in vendita / Titolo originale: Femen. Ukraine Is Not a Brothel / Regia: Kitty Green / Fotografia: Michael Latham / Montaggio: Kitty Green / Interpreti: Inna Shevchenko, Sasha Shevchenko, Anna Hutsol, Oksana Shachko, Alexandra Nemchinova / Produzione: Kitty Green, Jonathan auf der Heide, Michael Latham / Distribuzione: I Wonder Pictures / Paese: Australia / Anno: 2013 / Durata: 78 minuti
LINK
Sito ufficiale del film Femen. Ukraine Is Not a Brothel (Femen. L’Ucraina non è in vendita) di Kitty Green
I Wonder Pictures