Allegra Martin è una fotografa che lavora in un territorio liberato dal concetto di rappresentazione della realtà. Ha elaborato nel tempo un suo mondo espressivo attraversando luoghi e ambienti senza seguire tracciati precisi, senza definire progetti. Scopre, in sostanza, le cose strada facendo, incontra il mondo, le cose, gli oggetti, le persone. Il suo percorso è lastricato di continue sorprese e il suo metodo creativo consiste principalmente nel lasciare spazio alle molteplici possibilità che può offrire l’osservazione della realtà attraverso il mezzo fotografico. Tutto il suo lavoro si configura come un processo di elaborazione della realtà, attraverso l’esperienza dello sguardo.
Cosa ti ha spinto ad indagare sul territorio? Che tipo di indagine stai portando avanti? Cosa ti spinge a lavorare in certi luoghi?
Sarebbe più opportuno rispondere alla domanda: “cosa mi ha spinto a fotografare?” La necessità di elaborare ciò che mi circonda, la mia interpretazione del reale. La fotografia anche se ”registra” la realtà, è molto distante dal riprodurla. Nello scatto c’è sempre qualcosa in più o qualcosa in meno, un punto di vista diverso, una realtà “altra”. Fotografare il territorio è per me fotografare ciò che mi circonda, lo spazio di cui ho esperienza: il paesaggio è una costruzione mentale, la proiezione di quello che siamo nella realtà che ci circonda. E questo è ciò che mi interessa.
Quando ho iniziato fotografavo ciò che capitava; durante i miei studi di architettura, quando ho cominciato a fotografare più “consapevolmente”, ho iniziato a costruire progetti che contenessero le fotografie. Col tempo ho capito che tutto ciò che faccio è parte dello stesso progetto, e ha molto a che vedere con la mia vita. È qualcosa di molto personale. Quindi, mi sono concessa più libertà.
La mia condizione ideale è scegliere una “strada”, un luogo, un territorio, e cominciare a percorrerla per poi effettuare un détour. Il vero percorso è la deviazione stessa , la scoperta di qualcosa di inaspettato. L’immagine è l’esperienza dell’incontro, è un grande serbatoio di possibilità. Fotografare per me è “registrare” l’esperienza in un certo luogo. Le fotografie, giorno dopo giorno, sono per me un diario. Quando guardo a distanza uno scatto ciò che mi interessa è il ricordo del mio stato d’animo o i miei pensieri in quel momento e in quel luogo.
In alcune delle tue immagini si nota in maniera evidente che l’elemento umano è un tutt’uno con il paesaggio; qual è la tua idea su questo concetto?
Le persone sono il paesaggio, ne fanno parte, tanto quanto gli edifici, le cose. Spesso una figura umana nel paesaggio aumenta la possibilità di sguardi. “Cosa guarda?” “Chi e cosa guardiamo”? Crea dinamismo, aumenta il “mistero” dell’immagine.
Cosa è per te il ritratto? Quanto è importante in un lavoro fotografico ?
Da qualche anno ho cominciato a fare ritratti. Preferisco ritrarre gli sconosciuti così posso immaginare quello che voglio, e cerco quasi sempre di non lasciare loro il tempo di adottare una posa. Mi piace l’idea di coglierli “in fragrante”, mentre vivono la loro vita. Mi interessa ancora una volta l’incontro, i racconti possibili e domande che nascono quando fotografo una persona. “Dove vivrà?” “Cosa le piace fare il mattino?” “. “È felice?” “Cosa ha sognato stanotte?” Cerco le risposte nei dettagli, nella piega della giacca, nello sguardo. Ma al tempo stesso, ciò che mi attira nei soggetti che scelgo di fotografare è la possibilità che siano lo specchio di me stessa.
Le persone sono il paesaggio, ne fanno parte, tanto quanto gli edifici, le cose. Spesso una figura umana nel paesaggio aumenta la possibilità di sguardi. “Cosa guarda?” “Chi e cosa guardiamo”? Crea dinamismo, aumenta il “mistero” dell’immagine.
Cosa è per te il ritratto? Quanto è importante in un lavoro fotografico ?
Da qualche anno ho cominciato a fare ritratti. Preferisco ritrarre gli sconosciuti così posso immaginare quello che voglio, e cerco quasi sempre di non lasciare loro il tempo di adottare una posa. Mi piace l’idea di coglierli “in fragrante”, mentre vivono la loro vita. Mi interessa ancora una volta l’incontro, i racconti possibili e domande che nascono quando fotografo una persona. “Dove vivrà?” “Cosa le piace fare il mattino?” “. “È felice?” “Cosa ha sognato stanotte?” Cerco le risposte nei dettagli, nella piega della giacca, nello sguardo. Ma al tempo stesso, ciò che mi attira nei soggetti che scelgo di fotografare è la possibilità che siano lo specchio di me stessa.
© Allegra Martin. Un mezzo giro, Castelfranco Veneto, 2013
Ritornando al paesaggio: prediligi luoghi apparentemente vuoti e statici, raccogli elementi, tracce, oggetti. Cosa ti spinge verso questo tipo di ricerca ?
Il paesaggio è un enorme serbatoio di tracce, simboli, simulacri, e sono questi a interessarmi maggiormente. Non mi interessa però dare forma alle cose, svelare la loro identità, adottando una rappresentazione formale: mi stimola di più il senso profondo, il mistero della possibilità che si cela in ogni immagine. L’identità di un luogo per me coincide con la percezione che ne ho e passa per la decostruzione dei suoi elementi. Mi viene in mente Antonioni, che non a caso parla di “immagini” e non “riprese”, proprio perché anche il cinema non riproduce la realtà ma ne dà, come la fotografia, una rappresentazione.
Oltre a un’indagine sul territorio, si ha la sensazione che nei tuoi progetti tu riesca a raccontare qualcosa che riguarda anche la sfera personale, qualcosa di più puro e intimo. Quanto questo discorso ha che fare con l’approccio documentario e se vuoi più descrittivo della tua fotografia?
La fotografia per me ora è una ricerca che ha molto a che fare con la mia vita personale. Di nuovo mi torna in mente Antonioni: “Report about myself” (racconto pubblicato in “Quel bowling sul Tevere”) dove un uomo punta un dito verso una misteriosa direzione. La fotografia è puntare il dito verso una misteriosa direzione.
Il mio ultimo lavoro, Lido. A sud di nessun nord, è frutto di una commissione da parte dell’Osservatorio di Ravenna per il progetto “Dove viviamo” ed è un racconto visivo su Lido Adriano, a pochi chilometri da Ravenna. Le fotografie raccontano il luogo e chi lo vive, ma al tempo stesso raccontano l’estate passata lì, il mio stato emotivo, tutto ciò che ho vissuto e che cercavo e ritrovavo in quello che vedevo.
© Allegra Martin. Lido. A sud di nessun nord, Ravenna, 2013
La fotografia documentaria implica l’utilizzo di un linguaggio specifico, il rispetto di alcune regole formali e la conoscenza della “storia”; lo scopo è quello di costruire un documento visivo stratificato. Gli scatti presuppongono una sorta di premeditazione e non ricercano alcuno stupore né sono conseguenza di un avvenimento, come nel caso del reportage.
Non riesco a definire il mio lavoro “documentario”, oggi. Anche se per alcuni versi lo è, voglio tenermi aperte anche altre possibilità. Oggi mi interessa sperimentare nuovi modi di rappresentazione e usare il mezzo fotografico per me significa innanzitutto elaborare il mio mondo. Fotografare oggi per me è cogliere il potere evocativo che ha un oggetto, una persona, un paesaggio. Ciò ha molto poco a che vedere con il reale. Il mio sogno è sempre stato quello di fare l’artista, dipingere.
Nel lavoro sul “Vajont” si vedono solo tre immagini; parlaci di questa scelta e cosa rappresenta per te quel luogo cosi tragico; quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a partecipare al progetto Calamita/à?
La scelta di pubblicare solo tre immagini è avvenuta per raccontare un lavoro non finito. Ho in programma di continuare a fotografare a Vajont. È un luogo molto complesso, la cui identità è frammentaria e “sospesa”. Il progetto Calamita/à nasce dalla volontà di creare un “laboratorio” e una ricerca permanente sul territorio.
L’interesse verso il territorio del Vajont – per quanto mi riguarda – non è direttamente connesso alla tragedia quanto piuttosto alla sua identità frammentaria. A poca distanza di tempo mi sono ritrovata a lavorare a L’Aquila (settembre 2013, nell’ambito del progetto Confotografia) e anche in questo caso lo scenario era un luogo scosso da una recente tragedia: mi sono trovata a confrontarmi con un paesaggio pieno di cicatrici. Anche in questo caso, ho preferito ricercare la quotidianità e “prendere le distanze” da ogni riferimento diretto al terremoto, anche se le tracce sono evidentissime.
© Allegra Martin. L’attesa, Confotografia, L’Aquila, 2013
Ti sei laureata in architettura, hai lavorato alla stesura della tua tesi con Guido Guidi. Ci puoi parlare di quest’esperienza e cosa ti ha lasciato nella tua formazione? Quali elementi di quell’esperienza associ al tuo modo di guardare e fotografare oggi ?
Durante i miei studi di architettura il disegno è stato molto importante; ciò che ho sempre amato di più è stato il riprodurre attraverso il disegno (schizzi, disegno tecnico) ciò che “immaginavo” o che vedevo. Mi piaceva moltissimo riprodurre a china i disegni, giravo con un taccuino dove disegnavo ciò che vedevo o che immaginavo: un viso, un capitello, il particolare di un edificio. Quasi senza accorgermene ho sostituito questa pratica con la fotografia, che mi ha dato lo stesso appagamento. Ho iniziato a fotografare dettagli di architetture, paesaggi, edifici. Contemporaneamente a ciò, ho sentito la necessità di approfondire la storia dell’immagine e della fotografia.
L’incontro con Guido è stato molto importante per me. Mi ha insegnato l’insistenza dello sguardo, la riflessione sull’atto di vedere, l’importanza dell’errore. L’accettazione per quello che c’è, ma al tempo stesso la continua citazione a qualcosa che nello scatto non c’è .
Oltre alla produzione di immagini ho notato che fai parte di un progetto di ricerca Exposed. Puoi parlarci di questo?
Exposed è un’occasione straordinaria di riflessione sulle modalità di racconto e analisi delle trasformazioni in atto nel paesaggio contemporaneo, ma anche un percorso di formazione e di discussione intorno a temi più generali, quale appunto l’utilità di strumenti come la fotografia. Non credo che quest’ultima in sé per sé abbia il potere di “testimonianza”, né di documento, proprio per la sua natura ambigua. Ma ciò che la rende uno strumento di analisi è il contesto di riferimento, proprio perché le immagini sottendono sempre a qualcosa di più complesso e hanno molti livelli di lettura.
Exposed è anche un pretesto per creare una comunità di riferimento per il confronto artistico e non solo, uno strumento per comunicare e per un costante confronto su temi condivisi.
Quali sono gli strumenti che utilizzi prima di iniziare un progetto? Da cosa parti?
I progetti nascono da soli, dall’atto di guardare. Guardare implica già un’interpretazione di ciò che si ha davanti. Ciò che faccio per la maggior parte del tempo è guardare ciò che mi circonda, ascoltare, mi piacciono molto i dettagli e i particolari. Forse il mio immaginario è più legato al cinema; ultimamente guardo poca fotografia. Trovo più stimoli nella lettura, nella musica, nei mezzi di trasporto, nei sogni che faccio che sono sempre stati molto bizzarri.
© Allegra Martin. On board, 2009/2010
© CultFrame – Punto di Svista 05/2014
Allegra Martin (Vittorio Veneto, 1980) vive e lavora a Milano. Allieva di Guido Guidi, nel 2007 si laurea in architettura presso l’Università IUAV di Venezia. Tra i recenti lavori, “Cscs” progetto fotografico sul centro di calcolo CSCS di Lugano commissionato dall’Istituto Internazionale di architettura I2A di Lugano; “Welfare spaces” (2011) ricerca sugli spazi del welfare in Emilia per Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea. Nel 2013 è tra i fotografi selezionati per la residenza fotografica “Le nostre Mura” a Castelfranco Veneto e per il progetto-residenza “Confotografia” a L’Aquila. Di recente uscita “Lido. A sud di nessun nord” ricerca fotografica commissionata e pubblicata dall’Osservatorio Fotografico di Ravenna. Le sue fotografie sono state pubblicate su Io-Donna, Europanconcorsi, Abitare, Granta, e in progetti editoriali de Il sole 24 ore Cultura e Foam. Dal 2013 fa parte della redazione di Exposed.
SUL WEB
Il sito di Allegra Martin