Qualche breve riflessione sulla scomparsa di un grande autore della fotografia contemporanea: il tedesco Michael Schmidt.
Se ne è andato il 24 maggio 2014, all’eta di 68 anni. La sua opera rimane un esempio molto chiaro di assoluto rigore espressivo, di volontà continua di affinamento dello stile e desiderio incessante di ricerca. Quest’ultimo aspetto l’aveva non solo portato a documentare luoghi, ambienti e corpi, ma anche determinati processi produttivi che riguardano l’intera società occidentale (ma non solo).
Con il suo lavoro intitolato Alimenti (Lebensmittel), presentato anche nell’ambito della 55a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aveva realizzato un progetto lungo e minuzioso durato molti anni.
In questo periodo, il fotografo tedesco ha cercato di documentare (e comprendere a pieno) i processi di produzione degli alimenti che tutti noi consumiamo ogni giorno. Ha visionato, “schedato” e riprodotto fotograficamente grandi strutture industriali, coltivazioni di tutti i generi, allevamenti di ogni tipo di animale, procedimenti di produzione alimentare.
Il suo sguardo ha, così, edificato un gigantesco e preoccupante mosaico visuale che intende rivelare al fruitore il sistema mondiale dell’alimentazione, commercializzazione compresa. Ma il suo sforzo di documentazione, cioè di informazione, ha anche permesso di chiarire come l’impianto produttivo internazionale del sistema dell’alimentazione possa andare avanti anche grazie all’enorme mole di lavoro svolto da anonimi lavoratori.
Inquadrature dalle particolari sfumature cromatiche si alternano a frame in bianco e nero, oggettivamente inquietanti. Tale miscuglio non può che provocare in chi guarda una sorta di senso di nausea legato più che al cibo, in quanto tale, al meccanismo connesso al profitto ottenuto tramite gli impulsi consumistici generati dall’industria.
Ma a parte questo lavoro non bisogna dimenticare le visioni di Michael Schmidt che scaturiscono dalla relazione interiore con la città in cui è nato: Berlino. Le fotografie restituiscono una dimensione dell’universo cittadino straniante, un universo apparentemente saldo e graniticamente algido. In particolare, alcuni vacui spazi berlinesi (pubblicati nel libro Berlin Nach 1945 – Steidl, 2005) raffigurati nella loro rigida insensatezza e (presunta) razionalità forniscono al fruitore la dimensione di un ambiente privo di un centro di gravità permanente, ingabbiato in una specie di indefinibile condizione di speranza. I margini incerti e frastagliati della metropoli, interstizi indecifrabili individuati tra la sfera urbana e terreni di nessuno, producono contraddizioni visive e si manifestano come aree senza identità, non in grado di fornire un significato univoco dell’esistente ma capaci, incredibilmente, di stimolare l’immaginazione individuale e collettiva.
Michael Schmidt rimane un esempio di limpido spessore creativo, di forza pura e mentale dello sguardo e di profondità creativa che mi sembra appropriato collocare in una posizione centrale nella storia della fotografia europea del XX secolo.
© CultFrame – Punto di Svista 06/2014
(articolo pubblicato su Huffington Post)