Recentemente mi sono imbattuto su alcune fotografie dell’artista tedesco Michael Najjar. La serie si intitola High altitude, le foto sono immagini modificate del Monte Aconcagua, la montagna più alta della cordigliera delle Ande. Nelle foto le cime della cordigliera prendono la forma, a picchi altalenanti, dei vari indici titoli delle borse mondiali, Down Jones, Nasdaq, Nikkei, eccetera. L’idea è semplice, la serie, realizzata negli anni dell’ultima grande crisi economica, illustra che l’andamento delle borse valori ha ormai per noi cittadini ipermoderni la stessa solida, imperscrutabile ma anche virtuale realtà di un fatto di natura.
Al principio ho pensato alle solite espressioni di tanta arte contemporanea, dove si sostituisce il talento o il pensiero con una applicazione banale delle tecnologie, o quando va meglio si usano barocchi escamotage per stupire. E anche concedendo alle foto un qualche valore di penetrazione simbolica, ossia riconoscendo che l’aspetto metaforico delle montagne trasformate nell’indice Down Jones ci parli del mondo in cui viviamo, in cui anche la natura non solo non è immune dalle speculazioni finanziarie ma ne condivide la stessa sostanza essendo stata dal capitalismo completamente colonizzata, mi sono detto che in fin dei conti non c’era niente in quelle foto che aggiungesse pensiero a quello che già sappiamo.
Poi però quelle fotografie mi sono rimaste in mente; quelle immagini, anche loro malgrado, avevano qualcosa che aveva penetrato la mia soglia d’attenzione. Non sarà, mi sono detto riflettendo sul rapporto tra fotografie e realtà, che quelle immagini ci suggeriscono qualcosa non tanto sulla realtà, ma sulla realtà delle immagini? Non sarà che quelle fotografie, “fotografano” una realtà di altra natura, una realtà che a noi sfugge?
Se in termini estetici tradizionali, la fotografia per dirla con Baudrillard è «écriture de la lumière», è scrittura, traccia, sedimento di luce che impressiona la pellicola, e quindi espressione a un tempo riflessa e diretta del reale nella sua materialità, le immagini di Najjar che cosa sono? Che relazione intrattengono con quella montagna, con quella luce? La fotografia, scrive Barthes, «non è altro che contingenza, singolarità», espressione dell’irriducibilità dell’oggetto a ciò che non è. «Ogni oggetto fotografato», rincara Baudrillard, «non è che la traccia lasciata dalla scomparsa di tutto il resto»: è necessaria una «interruption du sujet», perché nella fotografia accada una «irruption du monde»: è così che «il mondo impone la sua discontinuità, il suo frazionamento, la sua istantaneità artificiale», rivelandoci l’esatta consistenza dell’estraneità e della distanza spettrale tra realtà e immagine. Questo perché la scrittura della luce, l’impressione luminosa della pellicola, non fa altro che estrarre un frammento di realtà dalla sua continuità materiale (nel tempo e nello spazio). Ma che succede se le immagini invece di essere estratte dalla realtà, invece di essere impressione luminosa, sono come in questo caso un’ibridazione? Cosa succede se alla scrittura della luce si sovrappongono, o si sostituiscono scritture agite da altro? Se all’impressione si aggiunge la manipolazione?
Ma la domanda che urge investe non tanto la manipolazione in sé, cosa non certo nuova all’estetica, ma gli strumenti e reali agenti della manipolazione che modella l’immagine, coloro cioè che scrivono al posto della luce, vale a dire i famigerati algoritmi che fanno funzionare quei software di grafica usati per modellare le cime delle montagne e per reinventare letteralmente la loro luce. Chi è dunque il vero agente, il vero autore delle immagini? L’artista, o la complessissima sequenza di istruzioni racchiusa nell’algoritmo che regola, che so, la diffusione della luce intorno alle forme nel software di ritocco grafico? La mano e la sensibilità dell’artista che controllano uno strumento che funziona come qualsiasi altro, o quello stesso strumento governato da un linguaggio e da una sintassi assolutamente non neutri e che sfuggono alla nostra capacità di controllo, e che la grandissima maggioranza di noi non è in grado neppure di leggere o riconoscere?
Anche qui, il punto non è tanto sapere se la forza creatrice è stata usurpata all’uomo dall’automa, quanto piuttosto capire se invece di essere noi a estrarre (quindi scoprire, conoscere) frammenti di realtà convertendoli attraverso la macchina in immagine, oggi la macchina modella (quindi riscrive, rielabora) a nostra insaputa le immagini convertendole in frammenti di realtà; realtà a noi familiarmente estranea dato che compare come la naturale espressione del mondo tecnologico. Non si tratta, ovviamente, di realtà tout court, ma di quei frammenti di realtà che andranno a comporre parte delle nostre verità epistemiche (quelle verità che ci permettono di percepire il mondo come reale), così che reale riconosceremo la luce di quelle montagne creata dall’algoritmo (solo della loro ironica forma dubiteremo), reale riconosceremo la satura compattezza cromatica di quelle immagini, reale riconosceremo il suono algido di un file mp3, eccetera.
Insomma, le fotografie di Najjar ci raccontano che il rapporto tra realtà e immagine ha subito una inversione, non più l’immagine espressione della realtà, ma viceversa, la realtà espressione dell’immagine. Inversione che qui è in qualche modo e chissà se consapevolmente, tematizzata: come gli algoritmi dei software di ritocco grafico modellano l’immagine, così gli algoritmi dei software finanziari modellano insieme alle nostre vite l’andamento dei mercati azionari (circa il 60% delle transazioni è realizzata dagli algoritmi in assenza di operatore umano), il che equivale a dire che strumenti creati dall’uomo, gli algoritmi, si sostituiscono all’uomo in un’azione tipicamente umana, quella di ricreare, modellare, adattare la realtà e ad essa adattarsi. Da cui una sorta di inversione nella dinamica che regolava i nostri processi di adattamento al mondo, tanto in termini conoscitivi e esperienziali, quanto pulsionali; ovvero, non il principio di piacere soggetto al principio di realtà, ma al contrario il principio di realtà soggetto al principio di piacere. Solo che qui, in questa strana coazione al godimento e al narcisismo tecnologico, il piacere non riguarda noi. Ma chissà la tecnologia stessa, che nell’espressione di sé ci attraversa. E forse ci usa.
© CultFrame – Punto di Svista 07/2014
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