Se la fotografia, come io sostengo, è tra tutte le arti visive tecnologiche la più complessa e difficile, il ritratto è il “genere” apparentemente più semplice ma, in verità, quello più complicato e denso di insidie espressive (insieme al paesaggio). Il fatto è che spesso il senso del fare ritratto è costretto dentro una tenaglia che vede da una parte la volontà di fermare oggettivamente l’espressione di un soggetto umano e dall’altra un patetico tentativo di far emergere una superficiale sostanza psicologica della sfera individuale.
La questione del ritratto è palesemente più oscura e sottile di quanto si possa immaginare e impone sia a chi fotografa che a chi guarda un relazione filosofica con l’immagine. Dall’idea deleuziana (a-psicologica) del cosiddetto “visage-paysage” (vedi i primi piani di Marlene Dietrich nelle opere filmiche di Josef von Sternberg) al problema posto dalla radice etimologica della parola ritratto (dal latino re, ovvero indietro, e tràhere, ovvero tirare), il ritratto impone una riflessione che va ben oltre i concetti di estetica (cioè sentimento percettivo) e riproduzione/rappresentazione.
Prendiamo il caso riguardante la mostra ospitata presso la Maison Européenne de la Photographie di Parigi fino al 12 ottobre 2014. Mi riferisco all’esposizione (Portraits) di ritratti di personaggi importanti e famosi realizzati da François Lagarde, fotografo ed editore (Édition Gris Banal) .
Apparentemente le inquadrature non possiedono particolari qualità di tipo creativo. Non vediamo impostazioni peculiari, non è riscontrabile una ricerca del bello fine a se stessa, non si avverte una volontà di comunicare una psicologia prevedibile. Eppure, questi ritratti così “semplici” lasciano un segno nello sguardo del fruitore, pongono dei problemi. Il volto (con gli occhi chiusi) dello scrittore/poeta e fotografo Denis Roche è ripreso in primissimo piano e collocato accanto alla testa di una scultura, il critico e semiologo Roland Bathes è raffigurato mentre lancia il suo sguardo fuori da una finestra, il pittore e scrittore inglese Brion Gysin è apparentemente bloccato in una smorfia che ne trasfigura il viso, il poeta americano Allen Ginsberg è colto mentre effettua una fotografia.
Sembra che François Lagarde abbia voluto semplicemente porsi nella dimensione di una cosiddetta “ricezione espressiva” che fosse caratterizzata da un’azione di accoglimento (“fotografia come atto femminile”) piuttosto che di cattura. Ma possiamo andare oltre. Se prendiamo in considerazione l’interesse di Lagarde per il filosofo Gilbert Simondon (Simondon du désert, film documentario firmato da Lagarde nel 2012), possiamo capire come il ritratto assuma una dimensione filosofica legata al concetto di individuo come essenza oscillante e variabile che muta in funzione di un divenire. Dunque, l’individuo più che un soggetto preciso sarebbe un processo che non può essere fissato, mai.
In tal senso, cosa sarebbero i ritratti realizzati da François Lagarde se non delle frazioni di un mutamento di individualità non complete (e che forse non saranno mai complete)? Dunque, il ritratto fotografico è in grado di parlarci del soggetto fotografato in modo esaustivo? Può rivelarci la sua psicologia profonda? A voi la risposta…
© CultFrame – Punto di Svista 09/2014
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)
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Maison Européenne de la Photographie di Parigi