Si è da poco conclusa a Perpignan, nell’ambito del festival Visa pour l’image, la mostra fotografica dal titolo Ceux du Nord. A cura del fotografo e documentarista Patrick Chauvel, l’esposizione ha il grosso merito di portare alla luce immagini inedite della guerra più lunga e tra le più laceranti combattute dagli Stati Uniti, la Guerra del Vietnam (1964-1975), e di riaprire il dibattito sulla produzione iconografica a essa collegata.
Una produzione per così dire controversa se si pensa che le foto più famose di questa guerra – divenute vere e proprie icone che hanno contribuito con la loro schiacciante e spietata evidenza a esacerbare l’avversione dell’opinione pubblica dell’epoca dichiaratamente ostile al conflitto – sono quelle dei fotoreporter che affiancavano le forze militari americane dispiegate in massa dal presidente Lyndon Johnson per contrastare l’avanzata comunista. Il che equivale a dire che le immagini passate alla storia sono state prodotte solo dagli Stati Uniti[1].
Una legge brutale e incontrovertibile presiede a ogni guerra: che essa abbia un vincitore e un vinto. Ora, un vecchio adagio recita: “La storia la fanno i vincitori”. Tuttavia, esiste quasi sempre un’eccezione alla regola, infatti in questo caso sono stati i perdenti, ovvero gli Stati Uniti, ad avere il privilegio di raccontare all’Occidente la loro versione dei fatti, univoca e parziale in quanto tale; dell’altro punto di vista, quello nord vietnamita, per oltre quarant’anni non abbiamo avuto che silenzio, oscurità, in una parola: oblio. Ebbene, Ceux du Nord, che ci mostra settanta immagini realizzate dai fotografi che stavano in prima linea accanto alle forze guerrigliere di liberazione e indipendenza, sostenute, oltre che dal Vietnam del nord di Ho Chi-Minh, dall’URSS e dalla Cina, giunge inaspettata a colmare questa lacuna, a dare finalmente una voce e un volto a coloro che questa guerra l’hanno vinta: i nord vietnamiti appunto.
Come detto sopra, quella del Vietnam fu la prima sconfitta militare degli Stati Uniti; tuttavia essa fu pur sempre una guerra combattuta lontano da casa, poiché, numerosi altri esempi lo dimostrano, quelle degli Stati Uniti sono guerre di aggressione che, come da definizione, ledono l’integrità territoriale e l’indipendenza politica altrui. Difatti, a essere sistematicamente bombardati col napalm, altrimenti noto come Agent Orange, furono le città e i villaggi vietnamiti con un numero incalcolabile di vittime civili che il governo vietnamita non ha, purtroppo, mai quantificato, ma che si stima essere vicino a un milione. Forse è per questo che, come sottolinea giustamente Vittorio Zucconi, in un suo articolo dal titolo: “La guerra vista dai Viet Cong”[2], non esiste il racconto trionfalistico dei vincitori, troppo presi nel periodo post-bellico dalla difficile opera di ricostruzione di un paese unificato sì, ma devastato dalla guerra.
Dunque, la loro è una non-storia. Nondimeno, le immagini della mostra di Perpignan (accompagnata da un libro: Ceux du Nord, edito da Les Arenas, 140 foto) ci permettono di “rivedere” questo conflitto dalla prospettiva dei vincitori rivelandoci alcuni aspetti interessanti: primo fra tutti, il fatto che il movimento di indipendenza non ebbe come protagonisti solo i vietcong, ma anche le popolazioni contadine e arrivò in breve tempo a coinvolgere persino le donne. Alcune foto ce le mostrano mentre inviano messaggi via radio o mentre, con in braccio il fucile, dirigono la loro squadra. Altre immagini – come quella che mostra un panzer nord vietnamita che entra a Saigon, ad accoglierlo è una folla in tripudio – non sfuggono invece al diktat di dover incoraggiare al patriottismo, alla causa della “mobilitazione delle masse per l’edificazione del socialismo” .
Anche l’aneddotica è tutt’altro che priva di interesse. Com’è facilmente immaginabile, i mezzi di cui disponevano i fotografi nord vietnamiti non erano neanche lontanamente paragonabili a quelli dei fotografi occidentali. Essi affrontarono infatti la loro missione in possesso di strumenti di fortuna e in condizioni di grande pericolo per la propria incolumità. Colpisce, a tal proposito, la storia di un fotografo che non avendo un teleobiettivo fu costretto ad avvicinarsi ai combattimenti affianco alle truppe di prima linea, riuscendo ciononostante a sopravvivere al fuoco nemico. Ma verosimilmente la sua vicenda sarà stata analoga a quella di molti altri fotografi, fatto sta che ne moriranno moltissimi durante il conflitto: circa 260 secondo le stime.
Si diceva in apertura come le foto più note e diffuse di questa guerra siano state realizzate da fotografi occidentali: Don McCullin, Philipp Griffith, Gilles Caron, Henri Huet, Eddie Adams[3], Nick Ut[4] – vincitore, quest’ultimo, del premio Pulitzer per la sua famosissima immagine, realizzata l’8 giugno del 1972, di una bambina vittima del napalm, mentre corre nuda, le braccia sollevate e sul volto un grido di dolore[5]. Oggi finalmente accanto ai nomi di questi celebri fotografi possiamo affiancare anche quelli di Doan Công Tinh, Chu Chi Thành, Hua Kiem, e Mai Nam: fotografi nord vietnamiti che, come molti loro colleghi di cui non conosceremo mai il nome, hanno raccontato con le loro foto l’altro volto della Guerra del Vietnam.
[1] Anche l’industria cinematografica hollywoodiana detiene il primato per aver prodotto il maggior numero di pellicole che raccontano la Guerra del Vietnam. Tanto che si può parlare di un vero e proprio filone, di un sottogenere del film di guerra. Appartengono ai vietnam-movies film come Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), e Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987): veri capolavori in cui la Guerra del Vietnam diventa un pretesto per raccontare la miseria dell’animo umano e come talvolta sia sottile la linea di confine che separa la follia dalla lucidità. Film altrettanto importanti, ma che raccontano i traumi psicologici, nonché le difficoltà di reinserimento nella vita civile dei reduci, sono: Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) e Il cacciatore ( Michael Cimino, 1978). Per un approfondimento della tematica, si veda: Stefano Ghislotti, Stefano Rosso (a cura di), Vietnam e ritorno. La “guerra sporca” nel cinema, nella narrativa, nel teatro, nella musica e nella cultura bellica degli Stati Uniti, (Milano, Marcos y Marcos, 1996).
[2] In La Repubblica domenica 14 settembre, 2014.
[3] E’ sua una delle foto più famose del conflitto, una vera e propria icona, capace, in quanto tale, di assurgere a simbolo di questa guerra “sporca”. Essa ritrae l’esecuzione di un prigioniero vietcong, l’1 febbraio 1968 a Saigon, da parte del capo della polizia del Vietnam del Sud.
[4] Non si può fare a meno di riflettere sul fatto che questi fotografi, benché si trovassero affianco agli americani, siano stati in grado di raccontare gli aspetti più crudi di questa guerra, senza dover ricorrere all’autocensura, senza dover nascondere od omettere, senza, cioè, dover difendere le buone ragioni dell’intervento impiegando i canoni della fotografia di propaganda. In tal modo essi riuscirono con le loro fotografie a farsi interpreti dello stato d’animo di avversione che montava negli Usa, ove le grandi manifestazioni pacifiste chiedevano a gran voce la fine immediata del conflitto.
[5] Cfr. Hariman Robert, Lucaites John Louis, “Public Identity and Collective Memory in U.S. Iconic Photography: The Image of ‘Accidental Napalm’ in Critical Studies in Media Communication, 20:1, pp. 35-66, 2003.
© CultFrame 10/2014
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Visa pour l’image, Perpignan