Il deserto rosso festeggia 50 anni. La sua sperimentazione fotografica influenzò la videoarte

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis
Frame del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
Frame del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni

Frame del film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni

In questi ultimi mesi abbiamo assistito alla giusta celebrazione, in varie manifestazioni e iniziative, del film di Pier Paolo Pasolini Il Vangelo secondo Matteo, opera realizzata nel 1964 che dunque ha raggiunto i suoi cinquanta anni di vita. Pasolini, d’altra parte, continua a essere una figura culturalmente ‘glamour’, capace ancora oggi di suscitare discussioni e creare schieramenti. Senza nulla togliere a Il Vangelo secondo Matteo (che rimane un film di straordinaria importanza e un testo audiovisivo esemplare), mi sembra però doveroso affermare come il 1964 non sia stato solo l’anno del Cristo pasoliniano. In quello stesso ’64, infatti, veniva realizzato uno dei lungometraggi centrali non solo del cinema (italiano e internazionale), ma delle arti visive del Novecento in generale: Il Deserto Rosso, capolavoro di Michelangelo Antonioni.

I cinquanta anni di questo titolo stanno passando in sordina, ma evidentemente Michelangelo Antonioni non è politicamente ‘attraente’ come Pasolini. Eppure, a mio avviso, sotto il profilo linguistico, registico e visuale Il Deserto Rosso ha detto molto di più de Il Vangelo secondo Matteo. Ma la questione va ben oltre. Infatti, l’intera filmografia di Antonioni ha lasciato una traccia indelebile nell’evoluzione della comunicazione visuale, del cinema, della videoarte e della fotografia contemporanea. I legami espressivi (lasciando da parte la cronologia storicistica) con grandi fotografi come Stephen Shore, William Eggleston, e addirittura con l’artista Ed Ruscha, sono assolutamente rintracciabili nelle inquadrature di molti film di Antonioni, come ho scritto nel volume (co-autore Orith Youdovich): Cosa devo guardare – Riflessioni Critiche e fotografiche sui paesaggi di Michelangelo Antonioni (2012, Postcart, Roma).

Ma ritorniamo a Il Deserto Rosso. La logica estetica e compositiva che sta alla base di questo film, e in particolare della lunga scena (su sfondo rosso) ambientata nella baracca lungo un canale avvolto dalla nebbia, ha influenzato in maniera inequivocabile (anzi diciamo che si tratta proprio di una citazione) la coppia di fotografi/videoartisti formata da Inez van Lamsweerde e Winoodh Matadin. I due artisti visuali, hanno ricalcato in modo preciso molte inquadrature della scena che ho citato precedentemente negli spot pubblicitari realizzati per la collezione spring/summer 2013 di Miu Miu. Si tratta di opere video impressionanti per la loro adesione agli aspetti formali e visivi de Il Deserto Rosso e per la volontà di ritornare sulle orme di Antonioni, addirittura cercando una figura femminile simile a quella di Monica Vitti.

Le influenze sulla fotografia contemporanea e sulla comunicazione visuale (ma addirittura sul mondo della moda) da parte del cinema di Antonioni sono ancora oggi evidenti e vitali, dunque. Ciò dimostra l’importanza assoluta di questo lungometraggio (che per la cronaca di aggiudicò nel 1964 il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, mentre il Vangelo secondo Matteo vinse il Leone d’Argento), opera che non può cadere nel dimenticatoio, così come non deve essere dimenticata la figura di Michelangelo Antonioni, troppo elegante e riservata, probabilmente, per attizzare il dibattito culturale (molto superficiale) nella società di oggi.

Voglio chiudere proponendovi una passaggio proprio de Il Deserto Rosso. Si tratta di un breve dialogo che intercorre nella baracca tra Monica Vitti e Richard Harris. Dice la Vitti:

“Mi sembra di avere gli occhi bagnati. Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare? Risponde Richard Harris: “Tu dici: cosa devo guardare. Io dico: come devo vivere. È la stessa cosa”.

Ebbene, nel dialogo che ho sopra riportato è racchiuso un fondamentale insegnamento di Michelangelo Antonioni, che a mio avviso dovrebbe rappresentare una delle basi dell’insegnamento nei campi della fotografia e del cinema (ma forse di tutte le forme di espressione in genere). Questo insegnamento morale e filosofico, prima che artistico, è invece totalmente dimenticato, forse perché considerato un’interferenza dal sistema attuale delle arti visive, quasi sempre concentrato sull’idea del successo fine a se stesso, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo.

© CultFrame – Punto di Svista 10/2014
(pubblicato su Huffington Post)

SUL WEB
Il sito di Ed Ruscha
Il sito di Inez van Lamsweerde e Winoodh Matadin

Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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