L’ingresso alla mostra Slivers di Ori Gersht, presso il Museum of Art di Tel Aviv, proietta lo spettatore immediatamente all’interno di un’esperienza percettiva dal forte impatto estetico, proprio perché genera in chi guarda un sentimento dello sguardo che non ha a che fare solo con il banale e vacuo concetto bellezza. Una stanza totalmente buia. Tre grandi videoproeizioni verticali. Tre vasi colmi di fiori che esprimono cromatismi molto variegati sono i fattori centrali, e unici, delle inquadrature. All’improvviso, tali vasi esplodono provocando la disintegrazione caleidoscopica degli oggetti “ripresi”. Solo assistendo a questo processo di distruzione, raffigurato al rallentatore, ci si può accorgere come le immagini visibili siano niente altro che i riflessi degli oggetti stessi (i vasi di fiori) su specchi.
Le implicazioni culturali, creative, filosofiche che emergono da questa videoinstallazione sono innumerevoli e chiamano in causa relazioni profonde con le culture pittoriche di secoli precedenti (mi riferisco in particolar modo al seicento), la questione della rappresentazione della realtà e la complessità del meccanismo di fruizione dell’opera d’arte.
Ori Gersht sembra concentrarsi sulla dilatazione del tempo e delle attese e sulla raffigurazione della (presunta) trasformazione dell’immagine fissa, di tipo fotografico, in immagine in movimento, che riproduce un’azione dinamica (operazione già effettuata anche dall’artista francese Sophie Calle nel video sul passaggio dalla vita alla morte della madre).
Le improvvise e inaspettate esplosioni dei vasi di fiori (copie materiche ispirate ai dipinti di Jan Brueghel il vecchio) non producono solo effetti visivi shock, generano anche dei processi bidirezionali di espansione-implosione che determinano le ricomposizioni miracolose delle immagini. Le tre inquadrature, in tal senso, si configurano come autentici “buchi neri” che imprigionano l’azione, come elementi a cui nulla può più sfuggire. Inoltre, non è possibile non pensare alla sequenza di culto del capolavoro di Michelangelo Antonioni Zabriskie Point, quando la giovane protagonista immagina di veder esplodere, mentre risuona lo psichedelico sound dei Pink Floyd, una grande villa abbarbicata sulle possenti rocce del deserto americano.
Non solo la pittura, dunque, appare come il terreno di coltura delle idee dell’autore israeliano, ma anche, con tutta evidenza, il linguaggio cinematografico nella sua dimensione più nobile e immaginifica.
In altri due video è possibile vedere la deflagrazione di un melograno colpito da un proiettile e la caduta (apparentemente lentissima) di un fagiano morto dentro uno specchio d’acqua. In questi due casi l’aspetto interessante è ancora una volta il legame con il mondo pittorico seicentesco. Ma non solo. Di nuovo, attraverso il meccanismo del rallentatore e (nel secondo video) del montaggio, che si avvale di diverse inquadrature più ristrette e di angolazioni e punti di vista differenti, Gersht costruisce un discorso razionale sulla complessità della percezione visiva e sull’impossibilità da parte dell’occhio umano (ma potrei dire del cervello) di cogliere il divenire reale delle cose in tutte le sue articolazioni.
Slivers presenta anche una serie di grandi e medie immagini fisse relative ai vasi di fiori. Si tratta di “fotografie” che si manifestano come testi estetici in grado di generare un sentimento percettivo del tutto soggettivo in chi guarda. Tali immagini sono poste in dialogo con nature morte pittoriche seicentesche e ottocentesche, anche di anonimi di scuola italiana.
La connessione tra opere “fotografiche” contemporanee e dipinti non appare gratuita, o semplicemente “bella” da vedere. Si percepisce in questa elaborazione il tentativo da parte dell’autore di contestualizzare culturalmente il proprio lavoro e di mostrare le radici della propria ricerca attuale. Si tratta, dunque, di procedimento comparativo che rafforza la natura anche teorica della mostra.
Il visitatore, grazie anche alla raffinata cura di Doron J. Lurie, si trova all’interno di un percorso di fruizione che è caratterizzato da una perfetta fluidità dell’allestimento che finisce per rendere Slivers una mostra dotata di un potente dinamismo interno (anche di tipo culturale) che trasforma l’esposizione da mero prodotto artistico-museale a vera e propria esperienza individuale dello sguardo e della mente.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2014
(pubblicato su Huffington Post)
INFORMAZIONI
Ori Gersht. Slivers / A cura di Doron J. Lurie
Dal 13 dicembre 2014 al 2 maggio 2015
Tel Aviv Museum of Art / 27 Shaul Hamelech Blvd, The Golda Meir Cultural and Art Center, Tel Aviv
Orario: lunedì, mercoledì, sabato 10.00 – 18.00 / martedì, giovedì 10.00 – 21.00 / venerdì 10.00 – 14.00 / chiuso domenica
Biglietto: Intero 50 ILS / Ridotto 40 ILS
LINK ESTERNI
Tel Aviv Museum of Art