L’azione creativa messa in atto da Gaston Zvi Ickowicz nel video Everyday Ceremonies possiede una doppia natura: una teorica, dunque meta-visuale, e un’altra di tipo sociale. Questa premessa appare necessaria per evidenziare in modo netto la complessità di questo testo audiovisivo che solo apparentemente si configura come un’opera connotata da elementi visivi e contenutistici facilmente leggibili. Gaston Zvi Ickowicz sembra prendere avvio dal ragionamento profondo del teorico del paesaggio e professore di letterature comparate Michael Jakob quando quest’ultimo sostiene, nel suo fondamentale studio intitolato “Il Paesaggio” (Il Mulino, Italia, 2009), che:
“In quanto immagine-paesaggio, la rappresentazione della natura opera sempre – almeno nella tradizione detta occidentale – grazie all’inquadratura. Offre un pezzo di natura che rinvia, oltre i bordi visibili, alla totalità invisibile.”
Il fulcro linguistico di Everyday Ceremoies è, infatti, l’elemento base della lingua fotografica e, di conseguenza, di quella cinematografica: l’inquadratura. Tale fattore si manifesta grazie all’iniziativa selettiva messa in pratica dall’autore, il quale decide il punto di vista (dell’osservazione) e l’ampiezza dell’inquadratura rispetto alla realtà circostante. Ma in relazione agli aspetti che compongono l’inquadratura è bene sempre ricordare che hanno un peso determinante anche altri due principi costitutivi: ciò che è in campo, cioè visibile al fruitore, e ciò che è fuori campo, cioè non visibile al fruitore. In termini di valore comunicativo, il fuori campo è addirittura più significativo di ciò è in campo, poiché ciò che viene escluso non è estraneo alla visione-narrazione, è semplicemente non messo in inquadratura. È invece, a tutti gli effetti, messo in scena, quindi presente nella specifica forma dell’evocazione.
In Everyday Ceremonies, la macchina da presa è fissa, la porzione di realtà visibile immutabile. Un campo lungo mette in comunicazione lo sguardo dello spettatore con uno spazio indistinto: un terreno incolto e abbandonato sul cui sfondo si notano degli ulivi. La sensazione percettiva primaria è di assoluta immobilità. All’improvviso, però, alcune figure umane iniziano ad attraversare quest’area entrando di volta in volta dai bordi opposti dell’inquadratura. Corpi vaganti, quasi fantasmi, che si materializzano e si spostano in direzioni opposte. Ciò che appare in campo si manifesta come una vera e propria, quanto inspiegabile, “danza antropica”, flussi di un’umanità sconosciuta che sezionano il paesaggio. Quest’ultimo rimane del tutto indifferente, lontano, terribilmente asettico. Il continuo, e paradossalmente armonioso, entrare e uscire dall’inquadratura ci fa comprendere come la superficie visibile non sia altro che un territorio insulso, uno spazio di vacuità, un microcosmo (contenuto all’interno di un territorio più vasto) che, nonostante la sua parzialità, riesce a determinare l’emersione di un senso esclusivamente grazie al processo dell’allusione. Cosa è escluso dalla cornice dell’inquadratura? Da dove vengono e dove vanno le persone riprese? È proprio l’invisibile, così, a divenire nella mente dello spettatore il nucleo contenutistico dell’opera. Ciò che è fuori campo, dunque, ha un valore maggiore rispetto a ciò che è in campo poiché costringe lo spettatore a immaginare e a identificarsi con i soggetti che si palesano nell’inquadratura, in sostanza a porsi delle domande.
Ebbene proprio, tale analisi ci permette di entrare in reale comunicazione con la connotazione sociale del video di Gaston Zvi Ickowicz. La porzione di paesaggio visibile, infatti, raffigura una realtà di passaggio tra i quartieri di Wadi Joz e Sheikh Jarrah dove è situata la sede del Ministero degli Interni di Israele a Gerusalemme Est. L’andirivieni di cittadini arabi nell’area vicina all’ufficio pubblico in questione trasporta il senso dell’opera su un piano più strettamente socio-umano e rappresenta, in modo para-oggettivo, la relazione, spesso conflittuale, tra individuo e Stato, tra identità e burocrazia, tra elemento umano e sovrastruttura politica. Tale conflitto è amplificato all’ennesima potenza proprio dalla contraddizione che sussiste tra il dinamismo, seppur lento, dell’azione (lo spostamento dei soggetti ripresi) e la staticità della forma comunicativa (l’inquadratura fissa con campo immutabile).
La questione espressiva centrale che, in modo rigoroso e antispettacolare, esalta la difficoltà esistenziale della condizione che vivono gli individui raffigurati nel video è il sostanziale distacco tra ambiente e corpo, tra luogo e identità. L’indifferenza silente del paesaggio è dolorosa, tragica nella sua imperturbabilità, quasi insostenibile per la sua totale freddezza. Il luogo (come concetto e contenitore di storie e tradizioni), spesso chiamato in causa quando si parla di identità individuale e collettiva, è di fatto assente, indecifrabile, “altro” rispetto alle questioni umane; non è portatore di significati assoluti ma veicolo comunicativo (anche di ciò che non si vede), cioè significante.
In tal senso, Gaston Zvi Ickowicz, grazie a Everyday Ceremonies, si colloca nel solco espressivo di autorevoli figure della storia del cinema contemporaneo. Se dovessimo trovare dei riferimenti filmici che hanno ispirato, consciamente o inconsciamente (non ha importanza), Ickowicz dovremmo citare certamente il regista tedesco Werner Herzog, e il suo capolavoro Fata Morgana, e il genio del piano sequenza e dell’inquadratura “senza tempo” l’ungherese Béla Tarr e il suo film Sátántangó. Herzog apre il flusso visivo di Fata Morgana grazie a un’inquadratura fissa ripetuta che ritrae sempre la stessa azione: un aereo in fase di atterraggio. Attraverso questo meccanismo edifica un sistema narrativo basato sull’iterazione dell’atto ripreso. Ciò trasporta lo spettatore in una sorta di stato di ipnosi e di dilatazione assoluta del tempo, quest’ultimo elemento non è più riconducibile alla dimensione cronologica e al concetto di durata. Nell’ambito di questo loop visuale, il prima e il dopo non sono più distinguibili. Allo stesso modo, Gaston Zvi Ickowicz costruisce un labirinto di movimenti basato sugli ingressi (nell’inquadratura) e sulle uscite (dall’inquadratura) dei soggetti ripresi, i quali senza saperlo divengono elementi di un ritmo visuale che si configura come una complessa composizione in cui l’iterazione ipnotica dell’atto (le persone che entrano ed escono dall’inquadratura) senza tempo si somma all’estensione ideale dello spazio di rappresentazione, allargato al cosiddetto “fuori campo”. Quest’ultimo aspetto è senza dubbio equiparabile, seppur con alcune distinzioni, alla concezione stilistica e narrativa alla base del cinema di Béla Tarr.
Nel suo capolavoro Sátántangó, Tarr crea uno scenario incentrato su immagini nelle quali la dilatazione dello spazio-tempo è spinta fino all’inverosimile; la dinamica narrativa del racconto è stimolata solo da lenti movimenti di macchina che includono con grande delicatezza nuove porzioni di realtà. In The Ceremony of One Hundred Landscapes, Gaston Zvi Ickowicz aspira alla medesima espansione dello spazio-tempo cercata da Bela Tarr ma, decidendo di non muovere la macchina da presa, opta per l’evocazione del fuori campo piuttosto che per la sua inclusione progressiva nell’immagine. Quelle appena evidenziate sono fattispecie espressive che rappresentano in maniera nitida il terreno di coltura nel quale lo stesso Gaston Zvi Ickowicz ha piantato le sue radici, ma tali radici trovano nelle sue scelte creative una conformazione artistica del tutto personale.
Un altro aspetto fondamentale di questo lavoro di Ickowicz riguarda l’uso linguistico del suono. L’inquadratura viene sostenuta non solo dallo spazio fuori campo ma anche dal suono proveniente dal “fuori campo”. Si tratta però di un suono “diegetico” poiché scaturisce da elementi della realtà. Il susseguirsi delle sonorità della città (ma anche della natura) è percepito dallo spettatore in chiave “acusmatica”. La fonte sonora, infatti, non viene vista direttamente dal fruitore del video ma proprio per tale motivo il valore linguistico-espressivo del sound, come accade spesso in ambito cinematografico, assume una portata enorme, soprattutto per quel che concerne l’evocazione della condizione sociale, politica e umana nella quale vivono gli individui che vediamo attraversare l’inquadratura. Dunque, in questo caso, il suono si configura come sfera linguistica portatrice di significati.
Everyday Ceremonies si manifesta, dunque, come un punto di svolta della ricerca visuale di Ickowicz, il quale si mostra in grado di dialogare con grandi esponenti delle arti visive del Novecento e di collocare nel territorio della videoarte elementi di linguaggio che fanno chiaramente riferimento alla struttura della lingua filmica. Inoltre, dispone all’interno di questo dialogo creativo con il cinema il proprio universo poetico: un universo denso di sensibilità umana e di attenzione nei riguardi “dell’altro”, di quegli esseri umani che, essendo costretti a svolgere (a causa di sovrastrutture socio-politiche) il ruolo di parte di un conflitto, finiscono invece per manifestarsi semplicemente come persone, individui che vivono la loro avventura terrena condividendo con “altri” l’esistenza in un paesaggio indifferente alle “cose umane”.
Per questo motivo, è possibile sostenere come Gaston Zvi Ickowicz abbia compiuto un piccolo miracolo espressivo, cioè sia riuscito a impiantare nello stesso spazio ideale, sulla stessa lunghezza d’onda, la visione personale dell’autore, le figure umane e gli sguardi plurimi degli spettatori, al di là delle coordinate dello spazio-tempo e delle presunte differenze che secondo alcuni dovrebbero separare i destini dei cittadini del mondo.
Testo critico che accompagna il video Everyday Ceremonies esposto nell’ambito della mostra di Gaston Zvi Ickowicz presso Hezi Cohen Gallery di Tel Aviv
© Maurizio G. De Bonis / © CultFrame 01/2015
INFORMAZIONI
Gaston Zvi Ickowicz. Everyday Ceremonies / A cura di Ofra Harnam
Dall’1 gennaio al 7 febbraio 2015
Hezi Cohen Gallery / 54 Wolfson Street, Tel Aviv / Telefono: +972.3.6398788 / info@hezicohengallery.com
Orario: lunedì – giovedì 10.30 – 19.00 / venerdì 10.00 – 14.00 / sabato 11.00 – 14.00 / Ingresso libero
SUL WEB
Il sito di Gaston Zvi Ickowicz
Hezi Cohen Gallery, Tel Aviv