Derivazione a stelle e strisce dell’omonima miniserie televisiva britannnica prodotta nel 1990 dalla BBC e tratta dal romanzo di Michael Dobbs, House of Cards rappresenta forse il più citato, premiato, osannato show degli ultimi anni. Per molte valide ragioni. La prima risiede proprio nell’aver evitato di definirlo show “televisivo” giacchè, sebbene in Italia sia trasmessa dall’eccellente canale pay Sky Atlantic, si tratta di una produzione Netflix, lanciatissimo canale di streaming on-line: un nuovo modo di produrre spettacolo e, dunque, di fruirne. Netflix ha dato il via al progetto programmando da subito due stagioni da 13 episodi l’una, una visione a lungo termine che ha donato alla serie nuove prospettive e maggiore continuità drammaturgica, soprattuto grazie alla straordinaria sceneggiatura di Beau Willimon, autore dei migliori dialoghi uditi sul piccolo schermo, quantomeno nelle prime due stagioni.
Echi da kammerspiel nei lunghi scambi tra il protagonista Underwood e il suo alter-ego femminile, la moglie Claire, match dialettici in interni eleganti, carezzati da una fotografia “naturale” che alterna freddo grigio-azzurro a rari calori/colori ocra. House of Cards impone un approccio attento, non facile per un pubblico abituato a schemi più elementari e poco avvezzo ai meccanismi politici americani, ma una volta risucchiati dall’ossessiva ambizione dei protagonisti è impossibile smettere.
Va anche detto che in quanto a cinismo ed ipocrisia in politica noi Italiani siamo degli intenditori: non a caso la serie viene spesso (e spesso a sproposito) citata da vari politici che, peraltro, ne fraintendono il significato in senso positivo ed autoassolutorio. Ma anche al di fuori del nostro paese House of Cards sembra essere divenuto un feticcio, se perfino Obama la cita ripetutamente: una serie che dunque supera il confine dello schermo, l’ambito dello spettacolo, per diventare riferimento culturale, modo di dire, strumento per decrittare le manovre di potere e l’anima stessa dei potenti.
Consueto turn-over di ottimi registi per ogni puntata, con in testa James Foley (anche autore del pilot), tutti comunque al servizio di un’unità narrativa davvero stupefacente per omogeneità e sguardo d’insieme. Asse portante, protagonista e produttore un gigantesco Spacey che, bucando la “quarta parete”, ammicca rivolgendosi direttamente allo spettatore negli unici attimi di assoluta sincerità, per poi camuffarsi nuovamente dietro il suo gelido sorriso. Perfetta l’alchimia con la (co)protagonista Robin Wright, pure regista di un episodio, moglie-complice di algida eleganza, forse ancor più terrificante del marito per freddezza ed ambizione celate dietro un bon ton da upper-class che ne lascia soltanto intravvedere la ferocia.
Fulcro narrativo delle prime due stagioni, l’agghiacciante simbiosi della coppia viene messa in crisi nella terza, evidentemente inferiore alle precedenti per diversi motivi. Innanzitutto, come detto sopra, il progetto Netflix inizialmente prevedeva solo due stagioni in una visione unitaria e consequenziale, cosicché la terza (e la quarta attualmente in lavorazione) denunciano una cesura drammaturgica. Infatti risulta più appassionante la scalata verso il potere piuttosto che la conservazione del potere stesso: nella terza stagione Underwood ha raggiunto il proprio obiettivo e la sua diviene “guerra di posizione”, più statica, meno coinvolgente. Forse per mantenere alta la tensione la sceneggiatura finisce per estremizzare le situazioni, perdendo un po’ della credibilità delle stagioni precedenti: la caratterizzazione del presidente russo appare eccessiva, così come l’asprezza dei rapporti tra le due superpotenze ed i loro capi.
Pretestuoso e strumentale appare poi il personaggio del biografo presidenziale, utilizzato come catalizzatore del collasso matrimoniale tra i protagonisti, al centro di tutto il terzo capitolo. Ma la crisi tra i due finisce per indebolire l’ossatura drammaturgica del racconto, diviene eccessivamente preponderante rispetto all’intrigo politico (a cui si raccorda faticosamente) e fa il vuoto intorno alla coppia presidenziale lasciando in ombra quel tourbillon di personaggi che arricchiva le stagioni precedenti.
Sia chiaro, parliamo sempre di un prodotto di altissimo livello che, vista la brusca chiusura foriera di futuri sconquassi, per la quarta ed ultima stagione promette ulteriori torbidi, e godibilissimi, intrighi.
© CultFrame 04/2015
CREDITI
Serie Tv: House of Cards / Regia: David Fincher, James Foley, Joel Shumacher, Charles McDougall, Carl Franklin, Allen Coulter, John Coles, Jodie Foster, Robin Wright, Tucker Gates, John Dahl, Agnieszka Holland / Soggetto: Beau Willimon (dal romanzo di Michael Dobbs) / Tra gli interpreti: Kevin Spacey, Robin Wright, Kate Mara, Corey Stoll, Michael Gill, Michael Kelly / Produttori: Karyn McCarthy, Beau Willimon, John Melfi, Kevin Spacey, Joshua Donen, Eric Roth, David Fincher / Produzione: Media Rights Capital, Panic Pictures (II), Trigger Street Productions / Distribuzione: Netflix / Prima Tv USA: Netflix 1 febbraio 2014 / Prima Tv Italia: Sky Atlantic 9 aprile 2014 / 3 stagioni, 39 episodi / Durata episodi: 55 minuti