C’è un sentiero del dolore, un percorso che il cinema ha raccontato e racconta attraverso le tappe strazianti della malattia. Non è una rotta facile da seguire. Anzi. E’ la più impervia, pericolosa e, sovente, fatale per ogni autore perché parlare della sofferenza richiede coraggio. E pudore.
Con Mia madre Nanni Moretti è riuscito a mantenere un equilibrio delicatissimo, fragile come il cristallo dei sentimenti che può frantumarsi al primo tocco di ovvietà o nello sfiorare un, seppur vago, intento ricattatorio. Qui, invece, c’è un rigore, addirittura una disciplina nello strazio che affonda ancor di più lo sguardo nell’afflizione, profonda e pressoché inesprimibile, di una perdita. Tuttavia ciò non si converte in un freddo teorema del dolore ma, al contrario, in un racconto in cui confluiscono arte e vita, realtà e finzione, smarrimento esistenziale e consapevolezza dei propri limiti così straordinariamente umani.
Quattordici anni dopo La stanza del figlio Moretti torna alla narrazione, intima e privata, di un tragico familiare. Laddove nel film del 2001 il tessuto della storia si fondava sulla lacerazione di un padre nel sopravvivere alla morte di un giovanissimo figlio, qui è il progressivo incedere di un’anziana madre verso la fine ad alterare il percorso esistenziale di due figli adulti e maturi.
Giovanni è un ingegnere, Margherita fa la regista. Il pragmatismo di uno, l’irrequietezza dell’altra. Entrambi non sono opposti ma immagine speculare di un unico soggetto, un esistente/creativo che sta passando il guado di un’età in cui si tenta di credere che la vita abbia fornito qualche risposta.
Mai come in questo film il regista romano (si) “mette in scena”, ci porta – letteralmente – dentro al cinema (il suo, ma non solo) e al suo prosaico quotidiano, fatto di ciak sbagliati e battute dimenticate, ore inutili di girato e continui ripensamenti. Inoltre, così come fa ripetere alla protagonista, “si mette al lato”, lasciando spazio alla “sua” attrice, filtrando attraverso i suoi occhi lo sguardo, ampio e universale, di quel dolore che, inevitabilmente, ci appartiene.
Margherita Buy, perfetto alter ego di Moretti, distilla nel suo personaggio la fragilità e l’inquietudine dell’artista, quasi in balìa della sua opera, e della donna – in un doppio ruolo di figlia e di madre – di fronte al “calvario” materno. L’arte e la vita sembrano sovrapporsi, il ricordo acquista la nitidezza del presente in un continuum di vissuto e quel senso di disagio, di perdita e di abbandono lega e scioglie i nodi di una famiglia e di un artista.
La narrazione, così come la composizione dell’immagine, è asciutta e limpida, scevra da toni consolatori e proprio per questo risulta autenticamente emotiva e coinvolgente. Moretti dosa, in cristallina armonia, l’ironico e il tragico, pesa il piombo e la piuma, stemperando il dramma nei dialoghi che fondono densità e leggerezza e nella scelta di un carattere, cinematograficamente inteso, che brilla per lievità, in un ego di attore nevrotico e fanfarone, come quello di John Turturro.
Ma è negli occhi di Margherita (la cui omonimia con la protagonista ne sottolinea la forza di persona/personaggio) che filtra lo struggente realismo della storia, quegli occhi che si conficcano dentro un dolore al quale non ci si può sottrarre, che scrutano ossessivamente i dettagli di una scena e che vagano smarriti lungo i corridoi vuoti e le pagine dei libri in cui echeggia il silenzio di un’assenza. Il racconto di una fine diviene qui tutt’altro che plumbeo ma fa emergere in controluce le sfumature vigorose della vita e tutta la potenza del possibile in un luogo altro – “domani” – dove non possiamo non essere.
© CultFrame 04/2015
TRAMA
Margherita è una regista che sta girando un film sul mondo del lavoro e che ha scelto come protagonista uno strambo e umorale attore americano. Sua madre è ricoverata e la donna divide le sue giornate tra il set, la figlia tredicenne e le visite in ospedale. Suo fratello Giovanni, ingegnere che ha deciso di lasciare l’azienda, sembra sempre superarla in efficienza e raziocinio e, mentre le riprese si rivelano più difficili del previsto, i medici dicono che la loro madre non ha più molto tempo. Margherita, in balìa tra la realtà e i ricordi, teme il lutto imminente e tenta di aprirsi un varco lungo il percorso, inevitabile, della sofferenza.
CREDITI
Titolo: Mia madre / Regia: Nanni Moretti / Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Velia Santella / Fotografia: Arnaldo Catinari / Montaggio: Clelio Benevento / Scenografia: Paola Bizzarri / Interpreti: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini / Produttore: Nanni Moretti, Domenico Procacci / Distribuzione: O1 Distribution / Italia, 2015 / Durata: 106 minuti
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