Non è facile parlare di questo film, così come non è facile guardarlo, laddove per “facilità” non s’intende un processo limitativo ma, al contrario, uno sviluppo – narrativo/visivo – senza sforzo.
La danese Susanne Bier, dopo l’Oscar per In un mondo migliore (2011) la parentesi disimpegnata di Love is All You Need (2012) e l’esperienza americana di Noi due sconosciuti (2007) e Una folle passione (2014), torna in patria per raccontare una storia di tragica genitorialità che indaga, con non poca crudezza, le dinamiche, profonde e laceranti, di un “modello” di famiglia la cui armoniosa apparenza cela un puzzle feroce di tasselli di verità inconfessabili.
Non è facile parlarne, dicevamo, anche perché non si può (e, soprattutto, non si deve) scoprire nulla nel pieno rispetto degli autori e degli spettatori che, gradualmente, scopriranno ciò che si nasconde nella vita di Andreas e Anna, coniugi belli e innamorati, diventati da poco genitori. L’intero impianto narrativo, infatti, si fonda sullo svelamento che procede, fin dall’inizio, per gradi temporali che si salderanno gli uni agli altri nel corso del film.
L’incipit (Anna, in casa, sdraiata in terra, Andreas, in giardino, chino sul prato all’imbrunire…) contiene già l’essenza del dramma che verrà. La genitorialità, intesa come “stato volontario” è il fulcro di una vicenda familiare – quella dei protagonisti – che ne incrociano, in maniera casuale quanto fatale, quella di un’altra coppia, agli antipodi per status e condizione sociale. Laddove Anna e Andreas vivono in un’esteriore serenità l’arrivo del loro bambino, Tristan e Sanne, tossici ed emarginati, sembrano non sapersi prendere cura di un figlio neonato al quale paiono riservare l’attenzione di un “oggetto” smarrito. Le due donne, accumunate dal loro essere madri, tagliano di netto il senso fondante della loro “funzione” – generativa e nutritiva – separando “giusto” e “sbagliato” che qui rivela tutto l’errore di tale dicotomia che, molto spesso, risiede nell’ovvietà dell’apparenza.
La Bier, nell’affrontare questa separazione manichea, sceglie di appuntare la sua attenzione sulla figura di Andreas, ligio poliziotto, marito accudente ma, soprattutto, padre amorevole. Spostando lo sguardo sulla paternità, in antitesi con una maternità che si vuole senso endemico appartenente ad ogni donna, la regista danese, infatti, sovverte le regole del legame filiale che rivela, scena dopo scena, tutto il dolore di un processo in grado di trasformare, anche in modo crudele, l’intera esistenza. Se generare si fa sinonimo di riparare, la figura di un figlio può diventare il simbolo di un fallimento o di una fuga o, ancor più tragicamente, farsi specchio di un senso di colpa al quale nessuno sguardo può sottrarsi.
Second Chance, quindi, non soltanto capovolge il ruolo materno ma, attraverso quello paterno, traccia una parabola feroce dell’umana debolezza di fronte al raggiungimento di un desiderio che sembra travalicare ogni ostacolo. Essere padre o essere madre non è una condizione socialmente imposta ma una sorta di vocazione, il cui istinto non risiede in ciò che si è, né in ciò che si fa ma nell’atto, semplice e nel contempo complesso, del donarsi in senso assoluto. Non si apprende, non si impara, non si leggono istruzioni per esserlo ma, naturalmente, si “è” genitori come Andreas cerca di far comprendere ad Anna nell’illusione che il “mestiere” di madre le sia più consono di quanto lo sia per la sbandata Sanne.
Da tale tenace convinzione la Bier fa allora scaturire il dramma che, attraverso una scelta estrema, non solo suscita interrogativi etici ai quali sembra impossibile dare una risposta ma illumina lo strato più oscuro di una genitorialità malata con la quale non è facile – né nella realtà, né nella rappresentazione artistica – fare i conti.
La storia procede in crescendo, come un thriller emotivo, che capovolge più volte la linea del racconto. La tensione è palpabile, l’atrocità è dietro l’angolo e ogni inquadratura sembra chiudersi, via via, su quel senso plumbeo dell’ineluttabile. La Bier narra in modo tanto sottile quanto brutale e accorcia il fiato, sempre di più, fino ad un finale la cui “normalità” spazza via ogni consolazione.
Non è un film perfetto ma, proprio per questo, ancor più spiazzante perché certe verità, che come per istinto rifiutiamo, faticano a trovare cittadinanza nel cinema al quale spesso si demanda anche il compito catartico nel mostrare il tragico. Qui, invece, non ci si purifica, né si offre una risposta all’istanza ma si è costretti a guardare nel baratro, ad ascoltare un grido, ad aprire gli occhi su quella crepa – dolorosa e terribile – che Calvino vedeva aprirsi “sotto i piedi di una coppia di esseri umani”.
© CultFrame 04/2015
TRAMA
Andreas è un poliziotto che ama il suo lavoro, ha una bella moglie e un bimbo nato da poco. Durante una perquisizione incontra Tristan, sua vecchia conoscenza e ora delinquente sbandato. Anche lui ha una compagna e un bambino di pochi mesi con i quali ha un rapporto tutt’altro che amorevole. Quando una terribile fatalità sconvolge la vita di Adreas il destino di queste due famiglie si incrocerà innescando un effetto a catena di tragici eventi.
CREDITI
Titolo: Second Chance / Titolo originale: Id. / Regia: Susanne Bier / Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen / Fotografia: Michael Snyman / Montaggio: Pernille Bech Christensen / Musica: Johan Söderqvist /Scenografia: Jacob Stig Olsson, Louise Lönborg / Interpreti: Nicolaj Coster-Waldau, Maria Bonnevie, Ulrich Thomsen, Nikolaj Lie Kaas, Lykke May Andersen / Produttore: Zentropa Entertainments34 Aps / Distribuzione: Teodora Film / Danimarca 2014 / Durata: 104 minuti
SUL WEB
Filmografia di Susanne Bier
Teodora Film