Nel suo film Behemoth, presentato nell’ambito della 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il regista Zhao Liang racconta la durissima vita dei minatori cinesi che lavorano in sterminati giacimenti di ferro del loro Paese. Passano un’esistenza terrificante, fatta di fatica inenarrabile e malattie, tutto per estrarre il materiale che poi servirà a produrre le armature metalliche che andranno a comporre il cemento armato. Quest’ultimo elemento è destinato, in gran parte, a edificare città fantasma costituite da centinaia di impressionanti grattacieli totalmente disabitati. Incredibili strutture edilizie destinate al nulla che vanno a creare degli spazi mostruosi di straniamento e alienazione (per quei pochissimi che riescono ad andare a viverci).
Zhao Liang con le sue potenti immagini, che raffigurano queste metropoli paradossali (quasi fossero set di film fantascientifici) comunica allo spettatore una sensazione di totale e scioccante spaesamento, fa emergere un’impostazione urbanistico-architettonica il cui unico scopo è, con tutta probabilità, quello di accrescere in maniera artificiale il prodotto interno lordo di una super-potenza economica iper-capitalistica (anche se si definisce ancora, incredibilmente, comunista) che sulle “bolle” economiche ha fondato la sua forza.
Ebbene, il disorientamento generato dalle metropoli dell’estremo oriente, dalla Cina al Giappone, è stato spesso al centro del lavoro di numerosi artisti visuali internazionali, a cominciare da Chantal Ackerman (Scende la notte su Shaghai) fino a Wim Wenders (Tokio-ga).
Per quel che riguarda il versante strettamente fotografico (anche se l’autore di cu stiamo per parlare in verità usa anche il video) certamente uno dei lavori più interessanti è stato quello realizzato da Stefano Cerio, che ha generato una mostra conclusasi il 4 novembre 2015 (Chinese Fun – Fondazione Volume, Roma) e un libro (che porta lo stesso titolo dell’esposizione) pubblicato dalla casa editrice Hatje Cantz.
Questa esperienza creativa di Stefano Cerio si contraddistingue per un’evidente coerenza espressiva, stilistica e formale. La sua serialità visuale, però, non produce una semplice catalogazione di luoghi e realtà stranianti, non si ferma alla superficie della rappresentazione, non si limita alla raffigurazione di ambienti attraverso una modalità pseudo oggettiva.
Lo sguardo di Cerio, il suo rigore compositivo, la sua lucidità collocata nell’atto di fabbricazione artistica sono robusti strumenti di espressione che collocano le sue opere in una dimensione positivamente meticcia e non banalmente documentaria: tra racconto della presunta realtà, dilatazione del kitsch, emersione dell’assurdo e una precisa tendenza di impronta surrealista.
Ciò che inquadra Cerio, a Shanghai come a Pechino, è certamente parte di un disegno di rappresentazione del mondo. I luoghi caratterizzati da costruzioni inquietanti e orride, sotto il profilo visuale, sono però presentati al fruitore grazie a uno scarto di senso amplificato dall’assurdità e dal gigantismo parossistico delle strutture collocate all’interno delle inquadrature stesse. Proprio quest’ultimo aspetto spinge il suo lavoro verso un “surrealismo contemporaneo”, basato sul concetto di incongruenza e di contraddizione architettonico-spaziale.
I centri del divertimento cinese, in cui trionfano sbiaditi cromatismi e ardite edificazioni, sono spesso messi in contrapposizione con la cementificazione delle metropoli cinesi. Sconcertanti grattacieli si ergono a guardiani severi e impassibili di una vita quotidiana che dovrebbe essere all’insegna di un divertimento un po’ folle e molto ingenuo.
In questo contesto, le opere di Stefano Cerio sono contraddistinte in maniera chiara da una sottile malinconia estetica che cattura lo sguardo del fruitore. La luce diffusa e chiara, i colori dalle tinte attenuate, i cieli sempre opachi e uniformi, sono tutti fattori che sommati alla quasi totale assenza della figura umana collocano le immagini dell’autore nell’ambito di un’idea di riproposizione del reale che oscilla compostamente tra emersione del visibile e trasfigurazione onirica.
Un’agghiacciante struttura architettonica troneggia su quella che sembra essere la ricostruzione di una piazza veneziana, palazzi immersi in una gelida nebbiolina (di smog) “guardano” impassibili la superficie ghiacciata di un laghetto, la terribile e convulsa urbanizzazione di una metropoli si contrappone al verde di un campo di calcio. In tutte queste situazioni ambientali ciò che regna incontrastata è una preoccupante sensazione di vuoto, una vacuità che non è solo del luogo in sé quanto piuttosto di un’idea di esistenza che l’ha generato.
Percorrere con lo sguardo tutto il sentiero visuale ideato da Stefano Cerio per Chinese Fun significa, dunque, lasciarsi andare all’esplorazione di un mondo che, con tutta evidenza, procrea macroscopiche contraddizioni. La Cina caotica e febbrile, così ben rappresentata da Cerio nel video ambientato nella metropolitana di Shanghai (esposto all’ingresso della mostra presso la Fondazione Volume di Roma) è niente altro che il rovescio della medaglia dell’altra Shanghai, dell’altra Cina, quella della dimensione del vuoto, dell’assenza, dello spaesamento, forse del silenzio.
© CultFrame 11/2015
CREDITI
Titolo: Chinese Fun / Autore: Stefano Cerio / Testi: Nadine Barth, Walter Guadagnini / Lingue: tedesco, inglese, italiano / Editore: Hatje Cantz / Anno: 2015 / Formato: 25.50 x 30.80 cm / Pagine: 128 / Immagini: 54 / Prezzo: 35 euro / ISBN: 978-3-7757-3969-6
SUL WEB
Il sito di Stefano Cerio
Hatje Cantz