Cosa avevano di particolare le immagini di Mario Dondero? È molto facile rispondere a questa domanda: la sincerità creativa dalle quali scaturivano. Ed ancora: una visione esistenziale limpida, diretta, nella quale la fotografia si collocava come esigenza primaria di volontà non tanto di rappresentazione estemporanea del mondo quanto piuttosto come risultato del desiderio vitale di conoscere (l’altro). In tal senso, Dondero era spinto a fotografare, in primo luogo, perché era ossessionato dall’osservazione, da quella tensione tutta interiore, caratteriale, che lo spingeva a scrutare l’esistente, a cogliere i fatti da un punto di vista basilare e, per certi versi, puro (moralmente): quello che nasce dalla schietta curiosità verso ciò che si vuole comprendere.
Il fotografo di origini liguri, ma da qualche tempo residente a Fermo, è scomparso il 13 dicembre all’età di 87 anni. Lascia un’importantissima lezione non solo in ambito fotografico ma anche per quel che riguarda la sfera umana. In una realtà come quella del fotogiornalismo contemporaneo basata, in alcuni casi, sulla vacua esaltazione di presunte star del settore e su una certa, inutile, spettacolarizzazione espressiva, la lezione di Dondero è stata, e continuerà ad essere, molto precisa: il fotogiornalismo è una disciplina e una pratica comunicativa e culturale che non deve cedere a talune derive estetizzanti e deve essere portata avanti soprattutto da una sana e vera passione (anche politica); tale passione deve correre di pari passo alle tensioni culturali individuali e deve essere basata su un altro elemento fondamentale: l’onestà intellettuale. Il rigore dell’immagine nell’opera di Dondero è, in sostanza, direttamente proporzionale alla forza umana della sua persona e alla sincerità dei suoi interessi (tra questi, certamente, ricordiamo l’Africa).
Per rendersi conto delle caratteristiche di questo vero fotogiornalista, che ha collaborato a lungo con testate giornalistiche italiane e francesi ed è stato al centro di diverse pubblicazione editoriali, basta analizzare a fondo i ritratti che ha realizzato nell’arco della sua lunga carriera, ritratti in cui intellettuali, filosofi, artisti, attori venivano ripresi all’interno di un meccanismo di normalità espressiva e compositiva che contribuiva ad esaltare la parte umana dei soggetti ripresi. Dal mirabile scatto in cui sono ripresi insieme Maria Callas, Luchino Visconti e Leonard Bernstein all’immagine di Pier Paolo Pasolini insieme a sua madre, da Jean-Paul Sartre intento a leggere il giornale (con accanto Simone de Beauvoir) al ritratto di Alberto Moravia, sornione e tranquillo, Dondero non ha mai “santificato” i suoi soggetti, li ha proposti nella loro umanità, senza orpelli e sovrastrutture.
Dondero non si è mai definito un artista, alimentando un comprensibile, e forse anche giusto, vezzo di chi fa fotogiornalismo pur possedendo un cristallino talento visivo come si evince ad esempio dai ritratti di Anouk Aimée, morbidamente distesa su un letto, e di Jean Seberg, avvolta in un ampio maglione e colta nella sublime delicatezza di un gesto denso di lirica femminilità. Ma forse lo scatto che maggiormente lo rappresenta come fotografo e grande osservatore dell’evoluzione della cultura europea è certamente quello realizzato nel 1959 in cui sono raffigurati gli esponenti (con la presenza anche di Samuel Beckett) del Nouveau Roman a Parigi. Si tratta di un’inquadratura non particolarmente complessa ma che contiene un suo ritmo interno sorprendente e che porta alla luce perfettamente lo spirito di una realtà creativa che rappresentava in pieno il fermento culturale francese che, tra l’altro, in quegli anni porterà anche alla nascita della Nouvelle Vague cinematografica. Un piccolo capolavoro basato su una alta sintesi espressiva come raramente capita di vedere nel fotogiornalismo di oggi.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2015
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)
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