Al mondo esistono atlanti impossibili da riprodurre composti da mappe e itinerari legati a memorie remote e singolari. Questi “atlanti” costituiscono dei paesaggi interiori o territori dell’anima, i quali rendono visibile uno “spazio” impossibile da codificare ma possibile da interpretare. La nostra memoria si muove appunto attraverso questo spazio il quale generalmente è costituito da un rapporto sentimentale affettivo con la geografia (psicogeografia). Ci sono spazi (luoghi) che vanno attraversati, vissuti e magari anche perduti prima che qualcosa possa realmente accadere.
Partendo da questo concetto sembra quasi che sia la vita stessa l’isola intorno alla quale bisogna girare per generare nuovi territori possibili che partono da territori assolutamente invisibili, le emozioni. È una questione di contesa tra isole visibili e isole invisibili del nostro “dentro” le quali fondendosi generano visioni “in-visuali” di possibili narrazioni. Bene lo aveva capito Madeleine de Scudéry nel lontano 1654 con la sua interessante realizzazione della “Carte de Tendre”, la mappa di un paese immaginario (sentimentale) conservata oggi presso la Bibliothèque Nationale de France di Parigi. La stessa donna ci mette dinanzi ad un’immagine che la rappresenta topograficamente senza apparire o invadere lo spazio.
Il viaggio, il movimento, la scoperta generano nella nostra mente una moltitudine di immagini impossibili da riordinare in uno spazio coerente, concreto e soprattutto percettivamente comprensibile a tutti. Quello che la materializzazione del nostro pensiero può fare è riorganizzare visivamente il suo percorso attraverso immagini che evocano queste possibili derive mentali quotidiane. Privilegiare la nostra vita alla nostra arte per ricostruire un’arte alla prova di una “rivalutazione continua” e la messa in atto del nostro pensiero interiore (emozioni) in relazione al nostro referente esteriore (paesaggio), ci aiuterebbe a trovare nuove forme di linguaggi, di sperimentazioni e di aperture verso “un’immagine” che possa andare oltre “l’immagine” stessa. Cosa succederebbe in questo caso alla fotografia? In quale forma continuerebbe ad esistere?
Se la mappatura degli spazi resta “aperta” tutte le immagini in questo caso hanno motivo di esistere e di evocare itinerari che sì, appartengono all’autore, ma che nello stesso tempo lo annullano perché esse diventano parte dello spettatore o ancor meglio più esattamente del mondo intero. Il valore dell’immagine in questo caso diventa universale e soprattutto personale per tutti coloro che ne entreranno in contatto. Secondo la pratica situazionista della deriva (Debord) l’esigenza di azzeramento dello spazio tramite un «bouleversement» psichico della città, permette la realizzazione di una “creatività pura”. Nasce così un interessante gioco per indizi, un intersecarsi di corrispondenze tra psiche e territorio, di infrazioni insolite e di nuove connessioni.
Ci sono luoghi che ispirano il movimento, che ci fanno fare tragitti, che ci trasportano attraverso le cose, che ci creano diverse prospettive, sono quei luoghi che “spaziano” attraverso gli individui o che viceversa, ci permettono di fare luogo a un concetto, un’idea, un pensiero, facendoli diventare spazio. Questa pratica genera in fotografia una certa “assenza” dell’autore e del suo atto performativo che non sono inseriti nell’immagine in quanto paesaggio, si pensi in questo caso ai continui vuoti scenici o ai vagabondaggi dei personaggi di Michelangelo Antonioni. L’autore in realtà c’è ovunque e in tutte le sue immagini in quanto pre-visioni di una situazione, evento o molto meglio sentimento. Una sorta di attenta e volontaria “disparition” che lo rendono complice del significato più intimo delle sue immagini di cui paradossalmente allo spettatore non è dato sapere. Che cosa sono dunque questi paesaggi? Quale relazione hanno con l’autore? Questo senso misterioso e silenzioso ne aumenta di gran lunga il valore poetico.
Durante una conversazione telematica con Daniele Vazquez autore del libro “Manuale di Psicogeografia”, interessanti sono stati gli spunti da lui sottolineati in riferimento alle creazioni di ambience. L’autore stesso infatti cita il concetto di “non-luogo” di Jean-François Augoyard il quale coniava il termine negli anni Settanta riferendosi ad un “luogo percepito ad occhi chiusi e trasformato in modo visionario e personale da questa privazione sensoriale”. Un concetto molto lontano dal più noto non-luogo di Marc Augé. Sempre Vazquez continua affermando che una deriva ad occhi chiusi “porterebbe in primo piano paesaggi sonori o olfattivi”.
Cosa diventano allora le città, i luoghi e i paesaggi che attraversiamo e il modo in cui li attraversiamo? Interessanti sono state le conclusioni redatte dallo stesso autore durante la conversazione:
“[…] Ritengo che l’esperienza della città che ne hanno i non vedenti ad esempio sia di fondamentale importanza per una comprensione di quello che Lefebvre chiamava “spazio vissuto”. I non vedenti non solo sono molto più attenti ai paesaggi sonori e olfattivi, ma conoscono lo spazio della città apticamente, sono tutti dei profondi conoscitori dello spazio urbano in forme che sfuggono anche agli urbanisti più attenti. Ecco paradossalmente inviterei un fotografo a restituire la psicogeografia di una città facendo l’esperienza del non vedente, la persona meno implicata con il mondo delle immagini e dello spettacolo”.
Potrebbe essere questo il giusto modo per rendere dignità al valore personale delle (nostre) immagini? Cominciare a camminare ad occhi chiusi nel mondo e tornare così ad una purezza perduta dello sguardo?
© CultFrame – Punto di Svista 03/2016
Il testo è accompagnato da una ricerca fotografica dell’autrice in merito ad un viaggio personale a Hames (Francia), paese della migrazione dei suoi nonni. Tutte le immagini © Francesca Loprieno