Quale cinema propone un Festival che nella sua denominazione chiama in causa il concetto di reale? Se seguissimo Freud, per cui il reale è quella verità inconscia che emerge negli incubi e che ci impedisce di languire nel sonno, si tratterebbe di un cinema da incubo ma proprio per questo un cinema che ci svela una qualche forma di verità che altrimenti non saremmo in grado di vedere. Nel bene o nel male, quello che si è appena chiuso a Parigi non è stato un “festival da incubo” ma non per questo sono mancate occasioni per trovarsi faccia a faccia con pezzi di mondo, istanze ed esistenze di cui è capace di farsi carico un cinema documentario oggi sempre più capillare nella società grazie ai mezzi tecnologici leggeri a disposizione.
Basti pensare al film che si è aggiudicato il Gran premio del concorso internazionale, Long Story Short in cui la statunitense Natalie Bookchin compone un vertiginoso mosaico di storie e voci di residenti in centri d’accoglienza per indigenti in California. Ne emerge il ritratto epocale di una classe media fortemente pauperizzata, che dà voce a una collettività senza appianare le specifiche singolarità dei testimoni interpellati.
Se c’è qualcosa di inemendabile per gli esseri viventi questo è sicuramente il corpo che la razionalità capitalista pretende di plasmare e piegare alla sua logica attraverso una messa a lavoro che in alcuni casi esige la morte. Come nel caso delle bestie di cui ci nutriamo, messe a valore da una macchina di annientamento che non lascia indenni neppure gli esseri umani che vi lavorano e a cui, nonostante il rumore infernale che regna nei mattatoi, cerca di dare parola il documentario Saigneurs di Vincent Gaullier e Raphaël Girardot. Il film è interessante per come, nonostante il diniego di molti intervistati, le immagini riescano a mettere in luce una complessa stratificazione di forme diverse di violenza: quella della macellazione ma anche quella di un settore investito come ogni altro dalla precarietà e da forme ossessive di valutazione delle performance produttive dei singoli la cui incolumità fisica è, per di più, costantemente a repentaglio. Un punto di vista diverso da quello di un altro film recente girato in un macello, cioè Fi Rassi rond-point di Hassen Ferhani. Un universo in via di mutamento, quello dell’allevamento e della macellazione, a cui con un po’ di nostalgia guarda, invece, un film “patrimoniale” girato in un’azienda agricola famigliare francese come Les Héritiers di Maxence Voiseux, non a caso vincitore del “Prix du Patrimoine de l’immatériel”.
Ci sono corpi malati, morenti (la madre malata di Alzheimer in Vivere di Judith Abitbol, che ha ricevuto una menzione al “Prix des Bibliothèques”, assegnato invece a Of shadows di Yi Cui) o semplicemente scomodi che preferiremmo ignorare ed è allora che il cinema del reale interviene a ricordarci che quei corpi esistono e che ci parlano anche se non abbiamo voglia di ascoltarli. Che faticosa ginnastica visiva ci impone un film come La mécanique des corps di Matthieu Chatellier, girato in un centro di riabilitazione per persone che hanno subito amputazioni agli arti. Come queste persone lavorano nel ricostruire un’immagine di sé e un rapporto, anche tecnico, con il proprio corpo al fine di adattarsi a una difficile ma irriducibile nuova materialità fisica, il nostro sguardo si trova a fare i conti con un’asimmetria corporea assai perturbante.
E che dire, invece, di quei corpi migranti che la fortezza Europa vuole espellere, di quelle persone che la polizia sgombera dagli spazi residuali che si sono conquistati sotto i ponti o ai margini delle nostre città come i protagonisti di Romeo e Kristina, giovani rom divisi tra Marsiglia e la Romania, ritratti con tenerezza da Nicolas Hans Martin?
Corpi e anime che sopravvivono malgrado tutto a traumi inenarrabili, a guerre, carestie, torture, odissee di terra e mare per giungere nell’agognata Europa ma che finiscono per portarsi dietro ferite che sembrano inguaribili. La permanence di Alice Diop, a cui è andato il “Prix de l’Institut français Louis Marcorelles”, racconta questa realtà dall’interno dell’ambulatorio dell’ospedale Avicenne di Bobigny, l’unico nel raggio di molti chilometri a prestare cure a migranti e sans papier gratuitamente e senza prenotazione. Corpi in carcere che trovano nello studio e nel dialogo con altri la possibilità di pensarsi cittadini oltre le sbarre ritratti in Dustur di Marco Santarelli, che porta a casa il premio Giovani, lo stesso che qualche anno fa si aggiudicarono Cyop&Kaf per Il Segreto.
Il reale emerge poi anche nel mondo in cui alcuni registi scelgono di raccontare dei luoghi, per esempio i grandi alberghi in zone di guerra dove risiedono i reporter che spesso proprio da quelle terrazze osservano e raccontano i conflitti. Questo è lo scenario in cui si muove Hotel Machine di Emanuel Lichache con un montaggio capace di rendere tra loro indistinguibili come fossero uno stesso luogo i più illustri hotel che a Bagdad, Beirut, Gaza, Kiev, Sarajevo hanno ospitato la stampa di tutto il mondo. A questa realtà lussuosa e sonnecchiante, fatta di confort e privilegi che voltano le spalle agli orrori che gli stessi ospiti sono chiamati a raccontare, si contrappone l’irrompere incontrollabile del reale sotto forma di violenza. Attraverso i racconti di alcuni testimoni o le immagini di repertorio che trasmettono schermi collocati in lussuose e vuote stanze apprendiamo di quei morti ammassati dietro al bancone della hall di un grand palace e faticosamente dissimulati mentre il personale si sfianca nell’intento di eliminare tracce di sangue che prontamente si riformano. Il reale è anche quello dei fantasmi della guerra che, per come il film ci racconta questi luoghi, sembrano in fondo non dissolversi con la fine dichiarata dei conflitti. Questo modo di raccontare il reale nasce da un linguaggio documentario sempre più sofisticato e impuro, in cui il realismo e la messa in scena si ibridano per esprimere una prospettiva sul mondo altrimenti inafferrabile.
Come inafferrabile in tutti i suoi risvolti continua ad apparirci la vicenda del colpo di stato del 1991 in Unione Sovietica che il grande regista Sergei Loznitsa ci racconta proprio in questa chiave nel film di repertorio Sobytie (The Event), attraverso un montaggio di riprese effettuate da operatori televisivi per le strade di Leningrado. Lunghi carrelli su astanti, capannelli di persone o veri e propri raduni di cui a volte stentiamo a capire il segno politico o il proposito. Sequenze straniate in parte simili, benché molto diverse nell’intento e nelle circostanze di produzione, a quelle meravigliose e dense di poesia girate da Chantal Akerman in D’Est (1993), il capolavoro con cui il Festival du cinéma du Réel ha voluto ricordare e omaggiare la cineasta recentemente scomparsa. A proposito di D’Est la regista scrisse in Autoportrait de Chantal Akerman en cinéaste una riflessione che sintetizza la capacità del miglior cinema del reale di raccontarci gli altri facendoci percepire la nostra stessa esistenza: « Le temps n’est pas que le plan, il existe aussi en face chez le spectateur qui le regarde. Il le sent ce temps, en lui. Oui. Même s’il prétend qu’il s’ennuie. Et même s’il s’ennuie vraiment et qu’il attend le plan suivant. Attendre le plan suivant, c’est aussi et déjà se sentir vivre, se sentir exister. Ça fait du mal ou du bien, ça dépend ».
Riassumendo, ecco i premi della 38° edizione:
Grand Prix Cinéma du réel: Long Story Short di Natalie Bookchin;
Prix International de la Scam (Société civile des auteurs multimedia): Die Geträumten di Ruth Beckermann; menzione a Oleg y las raras artes di Andres Duque;
Prix Joris Ivens / Cnap: [pewen]araucaria di Carlos Vásquez Méndez;
Prix du Court métrage: Ha terra! di Ana Vaz;
Prix de l’Institut français Louis Marcorelles: La permanence di Alice Diop, menzione a Sfumato di Christophe Bisson;
Prix des Jeunes: Dustur di Marco Santarelli, menzione a Die Geträumten di Ruth Beckermann;
Prix des Bibliothèques: Of shadows di Yi Cui, menzione a Vivere di Judith Abitbol
Prix du Patrimoine de l’immatériel: Les héritiers di Maxence Voiseux, menzione a La balada del Oppenheimer Park di Juan Manuel Sepulveda;
Prix de la musique originale: Oleg y las raras artes di Andres Duque.
SUL WEB
Cinéme du Réel – Il sito