La Roma del traffico asfissiante e delle vestigia romane, la Roma dei mezzi pubblici problematici e quella della Basilica di San Pietro o di Piazza di Spagna, la Roma di Trastevere e quella di Tor Bella Monaca. Potrei continuare all’infinito, potrei inanellare dualismi come quelli sopra elencati praticamente senza soluzione di continuità.
Si evince da ciò la complessità di una città che deve fare i conti con innumerevoli contraddizioni, amplificate oltretutto dall’estrema ampiezza della sua superficie amministrativa e da un territorio che si estende in maniera molto frastagliata anche, addirittura, in un’exclave. In tal senso, Roma (come per altro gran parte delle metropoli occidentali e orientali della modernità) pur essendo costantemente fotografata, filmata, narrata risulta di fatto irrappresentabile, non inquadrabile, non descrivibile.
Il rischio, nell’ambito del quale sono cadute molte iniziative legate alla rappresentazione della città negli ultimi decenni, è quello di impantanarsi nella costruzione visiva di pre-esistenze, cioè di elementi visuali che sono già ben impiantati nella mente e nello sguardo di fotografi e cineasti. E tale questione, ovviamente, non fa che generare una continua produzione di luoghi comuni.
Per quanto riguarda la pratica della fotografia, il caso forse più vivido di scivolamento nello stereotipo riguarda un autore tra i più celebrati della fotografia del Novecento: William Klein. Il suo, ingiustificatamente, celeberrimo Rome (già pubblicato nel 1959 in Inghilterra da Vista Books e in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore, e rieditato in versione aggiornata nel 2009 da Contrasto) può essere considerato l’apoteosi della pre-esistenza, e ciò è avvenuto nonostante (o forse proprio per questo motivo) Klein all’epoca della realizzazione degli scatti avesse a disposizione guide del calibro di Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini. Un esempio eclatante è l’immagine, realizzata a Cinecittà, del cittadino/lavoratore romano “tipo” (secondo Klein, evidentemente), vistosamente sovrappeso e poggiato mollemente su una sedia con dietro quella che dovrebbe essere la copia di una statua e accanto una vespa. Tre luoghi comuni, uno dietro l’altro.
Un altro esempio che mi sovviene è quello relativo al lavoro di un altro importante fotografo americano: Joel Sternfeld. L’artista produsse diverse immagini dedicate a Roma nel 1990. Da Villa Gordiani all’Appia antica, il tentativo di Sternfeld fu quello di connettere la Roma delle rovine e dei fasti del passato con la vita quotidiana degli anni novanta. Venne fuori una raffigurazione della capitale italiana, senza dubbio dal forte impatto percettivo, caratterizzata da una luce calda e da morbide sfumature cromatiche. Ma di fronte a queste opere, non è possibile non pensare a inquadrature molto simili già realizzate da Pier Paolo Pasolini in Mamma Roma o ne La ricotta quasi trenta anni prima. Con la differenza che la visione pasoliniana era estetico-politica (non estetizzante), filosofica e poetica, e all’epoca, innovativa, mentre quella di Sternfled era, forse, fin troppo gradevole e collocata in un solco creativo non propriamente personale.
Altri esempi di fallimento sono quelli scaturiti in modo inequivocabile dalle cosiddette “Commissioni Roma” realizzate nel corso degli anni nell’ambito di Fotografia Festival di Roma. Dall’esordio nel 2003 con Josef Koudelka, definito “sguardo inedito sulla città eterna” ma che invece è solo un progetto di natura quasi didascalica, anche se visivamente potente, alla cosiddetta “Roma mai vista” di Anders Petersen (2005), che invece non solo era già vista ma era anche non così impressionante dal punto di vista espressivo, fino alle ovvietà comunicative ed estetiche (per motivi molto diversi ovviamente) di Martin Parr (2006), Gabriele Basilico (2008) e Tod Papageorge (2010), e al lavoro ancor più discutibile (e veramente poco consistente) di Tim Davis del 2013.
© CultFrame – Punto di Svista 04/2016
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)