Mona Hatoum. La retrospettiva a Londra

SCRITTO DA
Claudia Colia
© Mona Hatoum. Performance Still 1985, printed 1995
© Mona Hatoum. Hot Spot III, 2009. Photo: Agostino Osio. Courtesy Fondazione Querini Onlus, Venice

© Mona Hatoum. Hot Spot III, 2009. Photo: Agostino Osio. Courtesy Fondazione Querini Onlus, Venice

Se non ora, quando? Dopo 35 anni di intensa attività e 40 passati nel Regno Unito, finalmente l’arte di Mona Hatoum, così sradicata, surreale e pericolosamente coinvolgente, viene celebrata alla Tate Modern, tramite un’ esauriente retrospettiva, che mette in scena, attraverso un centinaio di opere, tutte le fasi della carriera dell’artista, dalle performance degli anni Ottanta, alle creazioni più recenti.

La mostra si situa in un momento storico e politico molto pregnante, che, soprattutto nel Regno Unito, unisce, alle preoccupazioni per lo scenario internazionale (dai conflitti alle violenze, dal dramma dei rifugiati alle questioni irrisolte del Medio Oriente), polemiche di natura interna.

L’arte di Mona Hatoum non può passare inosservata, per la sua natura intensamente conflittuale, carica di significati e di messaggi difficili da ignorare. Di origini palestinesi, ma vissuta a Beirut fino al 1975, Hatoum si reca a Londra come turista, e poi, vi resta, drammaticamente esiliata, a causa del conflitto civile in Libano. Si autofinanzia gli studi alla Slade School of Art e i suoi primi lavori sono tutti incentrati sulla performance e sull’uso del video, così da relazionarsi al pubblico inviando al contempo un messaggio politico o personale. Il corpo per Mona Hatoum diviene territorio di esplorazione e linea di confine, ricettacolo di forza e vulnerabilità. In Roadworks (1985), la si vede camminare a piedi nudi per le strade di Brixton, con degli anfibi legati alle caviglie, sinonimo di polizia e di skinhead, di valenze conservatrici e xenofobe, reminiscenza fresca di scontri e rivolte in un’area multietnica, gravemente provata da crimine e disoccupazione.

Measures of Distance (1988) è un video intimamente legato all’intensità degli affetti, che squarcia il cuore nell’esilio e valica le norme di convenienza, realizzandosi sul corpo nudo della madre, arabescato dalle lettere che la figlia legge ad alta voce, nella lingua del paese che l’ha accolta e che la separa, dolorosamente, da volti e immagini del passato. Il tema della separazione, della dislocazione e di un esilio scelto e forzato assieme, che produce conseguenze, lo si ritrova in altre opere in mostra. In esse, ciò che è familiare viene stravolto, ciò che sembra rassicurante, nasconde in sé pericolo e repulsione. All’inizio del percorso espositivo, i visitatori vengono accolti da Corps Étranger (1994), un’endoscopia dell’artista, la quale spinge il suo interesse per le telecamere di sorveglianza ad un livello estremo, facendo del proprio corpo, il confine definitivo, e del video, la disgustosa e affascinante registrazione di ciò che davvero è più intimo.

© Mona Hatoum. Performance Still 1985, printed 1995

© Mona Hatoum. Performance Still 1985, printed 1995

Le opere di Mona Hatoum disegnano ambienti che diventano prigioni, tracciano limiti pericolosi, da non sfidare, raccontano di territori irraggiungibili e negati. Un ronzio costante pervade l’installazione dal titolo Homebound (2000), dove i mobili da cucina sono collegati e percorsi da fili elettrici, e gli utensili si illuminano, uno ad uno, creando una domesticità inquietante ed oppressiva, la morte dell’autodeterminazione.

Le sale della Tate sono variamente occupate da metafore di guerre e istanze politiche, di diaspore e separazioni senza fine, e ci si muove tra gabbie che imprigionano una nuda lampadina, a griglie di metallo, che racchiudono cellule di vetro, da foreste di filo spinato invalicabile, ad intrecci di capelli e tessuto. Le opere di Mona Hatoum ci raccontano, attraverso oggetti del quotidiano e installazioni minimaliste, il dramma personale dello sconfinamento e della diversità, la storia di un popolo senza terra, e di una terra promessa, delineata da mappe fatte di sapone e di perline. L’arte ci svela la dimensione umana di chi vive in un mondo pieno di contraddizioni e conflitti, un mondo che Hatoum rappresenta come un globo di filo metallico, dai continenti incandescenti, pericolosamente elettrificati.

© CultFrame 05/2016

INFORMAZIONI
Mona Hatoum
Dal 4 maggio al 21 agosto 2016
Tate Modern, Bankside, Londra / Tel: +44(0)207887888
Orario: domenica-giovedì 10:00-18:00/ venerdì e sabato 10:00 – 22:00
Ingresso: 16 sterline

SUL WEB
Tate Modern, Londra

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Claudia Colia

Claudia Colia si è laureata in Storia dell’Arte presso l'Università "La Sapienza" di Roma e nel 2003 si è trasferita a Londra, dove ha conseguito un Master in Contemporary Art Theory presso il dipartimento di culture visive della Goldsmiths University. Si occupa di scrittura, critica e didattica dell’arte e collabora con diverse istituzioni museali londinesi. Ha recensito mostre per testate online e cartacee ed è corrispondente di attualità per la trasmissione di Rai Radio2, Caterpillar. Dal 2006 fa parte della redazione di CultFrame - Arti Visive.

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