Di solito non cado nella tentazione di scrivere sui giudizi partoriti dalle giurie dei festival internazionali di cinema. Il gusto cinematografico è del tutto personale, le sensazioni che si provano soggettivamente dopo la fruizione di un film spesso sono poco nitide (maturano con il tempo, e ciò vale anche per la critica), la ricerca degli equilibri geo-politici quasi sempre genera forzature. La storia dei festival cinematografici, da Venezia a Cannes, da Berlino a Locarno, è costellata da “verdetti” discutibili, contestabili e, dunque, mettersi ogni volta a evidenziare le sviste delle giurie sarebbe una vera e propria perdita di tempo (critico).
Fortunatamente, alla fine dei festival i presidenti queste giurie quasi sempre si mantengono sul vago, parlano di discussioni sincere, a volte di scelte prese all’unanimità, in altre occasioni no. Ma hanno la furbizia di non rilasciare dichiarazioni bizzarre come quelle che ha consegnato al Corriere della Sera di domenica 11 settembre 2016 (articolo firmato da Valerio Cappelli) dal cineasta Sam Mendes, Presidente della Giuria del Concorso di Venezia 73.
Ecco quanto dichiarato dal regista dei due ultimi film su James Bond (non proprio due capolavori, giusto per chiarezza): “Ci siamo indirizzati su film senza compromessi, lontani da una zona comfort, con una visione originale… Su The Bad Batch è già stupefacente che in America si sia potuto realizzare un film del genere” (Corriere della Sera, pag. 27, spettacoli)
Alla luce di quanto affermato da Mendes (concedeteci di fare un po’ di ironia), è possibile sostenere come il cineasta britannico sia un accanito fan di Amici Miei di Mario Monicelli (1975) e degli Atti successivi. La sua dichiarazione, infatti, è una geniale supercazzola di tognazziana memoria. Per i più giovani spieghiamo che la parola (si trattò all’epoca della creazione di un neologismo) ‘supercazzola’ ha un significato preciso: burla bonaria e innocua, effettuata tramite frasi costruite con termini senza senso.
Ma scendiamo nel dettaglio. Se si analizza ciò che ha dichiarato Mendes c’è di che sorridere (benevolmente).
Che un film come The Bad Batch (Premio speciale della Giuria) non si sia mai potuto girare in America è un vero e proprio nonsense. Potremmo fare qui una lunghissima lista di opere girate in USA ben più estreme, difficili e insopportabili (al pubblico) girate alcuni decenni fa, così come potremmo indicare tutti i riferimenti filmici chiarissimi su cui questo lungometraggio è costruito attraverso un raffinato gioco di analogie, ribaltamenti e opposizioni (dal cinema di Sergio Leone a 1997 fuga da New York di John Carpenter, fino a vere e proprie citazioni visuali-paesaggistiche legate al cinema d’autore, vedi Gerry di Gus van Sant).
E ancora: “film con una visione originale”? Ci domandiamo: Mendes e i giurati si ricordano dell’esistenza di Possession (1981) di Andrzej Zulawski, per altro visibile integralmente su You Tube? Tiriamo in ballo l’opera visionaria, delirante ed estrema di Zulawski in relazione a La Región Salvaje di Amat Escalante (Premio ex aequo per la Miglior Regia). Il polipone dispensatore di piacere e di morte concepito da Escalante non fa venire in mente il mostro di Possession?
Ma andiamo avanti: “lontani da una zona comfort”? Come definire se non confortevole e, allo stesso tempo, confortante l’attribuzione della Coppa Volpi a Emma Stone per La La Land. Forse la giovane attrice americana dagli occhioni blu ha fornito una prova all’altezza delle interpreti di Une vie di Stephane Brizé (Judith Chemla), di Frantz di François Ozon (Paula Beer, risarcita con il contentino del Premio Mastroianni – Giovane Attrice Emergente), di The Woman Who Left di Lav Diaz (Charo Santos-Concio) e di Jackie di Pablo Larraín (Natalie Portman)? Sono esattamente le attrici appena citate che hanno portato il loro enorme contributo alla realizzazione di opere lontane dalla zona “comfort” evocata da Mendes. E siamo sicuri che Mendes sappia di cosa stiamo parlando.
Ma visto che oggi abbiamo deciso di parlare del verdetto della giuria di un festival importante come quello di Venezia, diciamo anche che tale giuria non ne ha azzeccata una, a parte, fortunatamente, il Leone d’oro attribuito al film di Lav Diaz (The Woman Who Left), regista di culto che meritava il massimo riconoscimento (ma non era l’unico).
In sequenza ecco alcune domande. Come è possibile ignorare quasi completamente il capolavoro di François Ozon Frantz (capolavoro per lo stile registico e visuale, per i contenuti veicolati e per la recitazione)? E come è stato possibile rimuovere totalmente il vero film “sconfortante” del festival: ovvero Une vie di Stephane Brizé, che però ha ricevuto il Premio FIPRESCI dalla critica internazionale? Che senso ha aver dato un ex aequo per la miglior regia ad Amat Escalante ad Andrei Konchalovsky (Paradise)? Perché relegare all’angolino del Premio per la Migliore sceneggiatura Jackie di Pablo Larraín? E siamo proprio sicuri che Tom Ford con il suo estetizzante e banale Nocturnal Animals meritasse il Gran Premio della Giuria?
La mia impressione è che si sia adottato una sorta di Manuale Cencelli. Questa procedura ha finito per generare un quadro dei verdetti con poco senso: con un occhio attento all’immagine del cinema americano e con l’altro preoccupato di cercare di far passare sotto tono lo spessore del cinema europeo.
Il problema, poi, è la formazione della giuria in sé (ma vale per tutti festival competitivi). Si ha come l’impressione, ma non da oggi, che chi fa cinema a volte non abbia uno sguardo ampio (veramente, e non da Manuale Cencelli) sulla storia della cinematografica mondiale. Ma questo è un problema culturale e strategico per i festival che non è possibile affrontare ora. Però, mi piacerebbe molto che Mendes rispondesse alle domande elencate in questo articolo, al di là delle dichiarazioni di prammatica e delle divertenti supercazzole post-festivaliere.
© CultFrame 09/2016