La fine del mondo. Mostra al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato

SCRITTO DA
Daniel Montigiani
La fine del mondo. Veduta della mostra. Foto: Ivan D’Alì
La fine del mondo. Veduta della mostra. Foto: Ivan D’Alì

La fine del mondo. Veduta della mostra. Foto: Ivan D’Alì

Ne Il seme dell’uomo, bizzarro ed estremo film del 1969 di Marco Ferreri, una giovane coppia sopravvissuta a una misteriosa catastrofe cerca di andare avanti nella speranza di ricrearsi un futuro. A non darsi per vinto è in particolare il ragazzo, il quale, con maniacale entusiasmo, colleziona svariati oggetti, manufatti e cibi con lo scopo di creare un “museo dell’umanità perduta” all’interno di una casa disabitata in riva al mare in cui i due si sono rifugiati.

Sembra di percepire una simile atmosfera visitando La fine del mondo, mostra che inaugura la riapertura del Centro per l’Arte Contemporanea Pecci di Prato dopo tre anni di ristrutturazioni: molte delle opere esposte nelle imponenti sale dell’edificio – principalmente installazioni ambientali, fotografie, video, ma anche dipinti e sculture – assomigliano infatti a resti della Terra conservati e messi in ordine da un uomo miracolosamente scampato a una sorta di apocalisse, desideroso, proprio come il protagonista del film di Ferreri, di “musealizzarli” per mantenerne intatta la memoria.

Thomas Hirschhorn, Break-Through (one), 2016. Foto: Luis Otero

Thomas Hirschhorn, Break-Through (one), 2016. Foto: Luis Otero

Si fanno notare in particolare Petrified Forest di Jimmie Durham (2003), stanza di un ufficio ricoperta di detriti, Break-Through (one) di Thomas Hirschhorn (2016), un soffitto sfondato dal quale fuoriesce una sorta di ammasso di travi semidistrutte, e, sempre dello stesso artista, Crystal – phones (2016), una teca in vetro contenente alcuni telefoni cellulari parzialmente intrappolati in formazioni minerali. In un contesto così post apocalittico anche la leggendaria Roue de bicyclette di Duchamp (1913) – uno dei pezzi più famosi in esposizione – cessa almeno per qualche istante di essere una delle opere maggiormente rappresentative dell’artista francese per divenire ai nostri occhi un semplice – e ormai inutile – resto di una specie di macchinario un tempo perfettamente funzionante.

Tuttavia, nonostante le apparenze, come ha sottolineato il curatore Fabio Cavallucci, la fine del mondo evocata dalla mostra non è da intendersi esattamente come evento catastrofico tout court, ma, in maniera più sottile e metaforica, come un sentimento, una condizione che attraversa tutti noi, che ci costringe a riflettere (anche) sullo stato di profonda incertezza originatosi dalle sfaccettature più allarmanti del contemporaneo. Difatti, alcune delle opere esposte sprigionano un forte senso di alienazione che sembra impadronirsi sempre di più dell’essere umano, come Celebration di Polina Janis (2015), video in cui delle coppie di uomini in uniforme accennano dei passi di danza con agghiacciante apatia, senza mai guardarsi in faccia, finendo per assomigliare a un inquietante gruppo di indifesi zombi. Si tratta di un’alienazione in parte causata dagli strumenti per eccellenza di questa frenetica contemporaneità come computer e cellulari sempre più avanzati (elementi questi ultimi non a caso presenti nella già citata opera di Hirschhorn Crystal – phones), vere e proprie comodità crudeli nei nostri confronti, oggetti che, dietro la loro indubbia, geniale utilità, possono rivelarsi insidiosi, capaci di deformare una sana percezione della realtà, di avvelenare i canali di una vera comunicazione.

Volodymyr Kuznetsov, Cultivation, 2016. Foto: Luis Otero

Volodymyr Kuznetsov, Cultivation, 2016. Foto: Luis Otero

Tale squilibrio interiore viene ulteriormente dilatato da altre minacce del contemporaneo quali inquinamento, riscaldamento globale, guerre, instabilità politica e crisi economica, tutti temi questi prepotentemente presenti all’interno della mostra, e che ne nutrono l’aura distopica. Ci troviamo così di fronte a una visione del mondo come accumulo sempre più tossico di cose, eventi, persone, sentimenti che può venire azzerato soltanto andando alle radici di questa incertezza globale, rendendosi conto di essere giunti ormai a un vero e proprio binario morto (ovvero alla fine) che è possibile superare ponendo un freno all’aspetto più capitalistico e (auto)distruttivo della forsennata attività umana.

In questo contesto così drasticamente peculiare anche certi inquietanti e misteriosi scorci di natura che si impongono in alcune opere sembrano fungere da metafora dell’infinita incertezza del futuro che rischia di fagocitarci completamente, come le spettrali distese di mare fotografate da Hiroshi Sugimoto nella serie Bay of Sagami Atami (1997), simili a piattaforme liquide pronte a inghiottire qualsiasi uomo che osi avventurarsi sulla loro superficie. Particolarmente interessante da questo punto di vista è anche Black Lake (2015), video di Andrew Thomas Huang in cui Björk canta uno struggente pezzo (Black Lake, appunto) sulla fine della sua lunga storia d’amore con l’artista americano Matthew Barney fra cupe formazioni rocciose, paesaggio islandese di monumentale asprezza che riflette perfettamente la condizione tormentata della musicista.

Non sembra esserci dunque scampo per i nostri occhi, costretti a percepire l’incessante senso di finito nelle sue varie declinazioni che pervade i vari lavori esposti. Eppure, a ben vedere, parallelamente, il fascino di alcune opere ci porta ad apprezzare l’insospettabile lato ipnotico – e talvolta persino poetico – di questa preoccupante fine messa in mostra, riuscendo almeno per un po’ a farci (in parte) dimenticare i catastrofici rischi a cui potremmo presto andare incontro.

© CultFrame 01/2017

INFORMAZIONI
La fine del mondo / a cura di Fabio Cavallucci
Dal 16 ottobre 2016 al 19 marzo 2017
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci / Viale della Repubblica 277, Prato / Tel. +39.0574.5314 / info@centropecci.it
Orari: martedì – domenica 11 – 23 / lunedì chiuso / Ingresso: 10 euro

SUL WEB
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato

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Daniel Montigiani

Laureato in Scienze dello Spettacolo e diplomato al Master di Critica Giornalistica presso l'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, è critico cinematografico e membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI). Ha collaborato con le riviste online Recensito e Paper Street. Fra le sue pubblicazioni: Non solo paura: ironia e black humour, saggio contenuto in Cuore di tenebra: il cinema di Dario Argento (Edizioni Ets) e il libro American Horror Story. Mitologia moderna dell'immaginario deforme (Viola Editrice) scritto con Eleonora Saracino.

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