Nato in Francia da una famiglia guineano-senegalese, e attivo in Senegal come formatore di filmmaker, Alain Gomis firma con Félicité il suo quarto lungometraggio. I tre precedenti erano già stati presentati a Locarno, Venezia (Giornate degli autori) e Berlino ma l’assegnazione a Félicité di un riconoscimento come l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2017 – in pratica il secondo premio dopo l’Orso d’Oro – rappresenta al contempo un traguardo e un punto di partenza importante per un cineasta che desidera lavorare in Africa e ha prodotto questo suo film interamente in quel continente.
Félicité non è il nome che la protagonista ha avuto fin dalla nascita, è quello con cui è stata ribattezzata (cristianamente) dopo aver rischiato di morire per malattia. Da allora è una donna speciale, che ha saputo affrontare in maniera indipendente la vita per nulla facile di una ragazza madre congolese che vuol guadagnarsi il pane con il suo talento di cantante. Colma di grazia e di orgoglio sui piccoli palchi dove si esibisce quanto nella quotidianità, Félicité deve però far fronte a un incidente motociclistico di cui il figlio è vittima e mettere da parte tutta la propria fierezza per trovare i soldi necessari a operarlo.
Il film si regge in buona parte sulla presenza e il carisma della sua protagonista, l’esordiente al cinema Véro Tshanda Beya, e attraverso di lei ripropone sul grande schermo un prototipo di personaggio femminile in lotta contro il tempo, la miseria e l’ingiustizia la cui scrittura recupera consapevolmente modelli già esplorati a fondo dal cinema neorealistico e da molti autori occidentali in epoche e contesti geografici differenti. Tuttavia, il lavoro di Gomis non può essere ascritto a un mero esercizio di neorealismo manierato e a una vuota riproposizione degli stilemi dardenniani in salsa congolese, pur presenti nella parte centrale dedicata alle disavventure della protagonista.
La visione del film lascia qualcosa in più soprattutto grazie alla polifonia di registri che l’opera presenta. Nella prima parte, i protagonisti emergono gradualmente da un lungo prologo notturno e dalla musica che la band per cui Félicité canta esegue in un baretto scalcagnato di Kinshasa: le periferie della città, capitale di quel paese instabile e dalle grandi diseguaglianze economiche che è la Repubblica Democratica del Congo, sono mostrate in numerose riprese semi-documentarie con uno sguardo che rivela la posizione complessa di chi filma in un emisfero e di chi guarda in altro. Una questione di sguardi forse non del tutto risolta perché irrisolvibile se non nella mescolanza, come dimostrano anche gli inserti onirici con la protagonista che vaga nella foresta di notte, cercando un ritorno sensuale e salvifico alla sua madre terra, molto più costruiti eppure autenticamente e profondamente legati alla cultura africana.
Un discorso analogo si potrebbe fare anche per quanto riguarda la colonna sonora di Félicité: da un lato vi sono le esibizioni della cantante con il composito gruppo di musicisti che fuori del film si sono riuniti in una formazione detta Kasai Allstars; dall’altro, nei momenti più drammatici del calvario della protagonista, risuona una composizione di Arvo Pärt che vediamo però eseguita dalla Symphonic Orchestra di Kinshasa (non l’unico degli omaggi al cinema di Terrence Malick – che la usò in To the wonder – disseminati da Gomis) e che ha una forte presa emotiva nello spettatore anche grazie allo svelamento di chi la realizza, di natura tutt’altro che meramente diegetica.
Infine, nell’ultima parte del film, i personaggi paiono almeno in parte affrancarsi dal loro destino tragico grazie alle improvvisazioni quasi comiche di Tabu, l’uomo che fa la corte a Félicité e la aiuta con il figlio, anch’egli interpretato da un altro non attore trovato nelle strade di Kinshasa. L’opera si libera così nelle ultime sequenze dalla sua sceneggiatura predeterminata, d’obbligo per ottenere i fondi necessari a mettere insieme una co-produzione internazionale: un modello produttivo che sembra essere attualmente l’unico a consentire di realizzare un lungometraggio con una troupe interamente africana che ottenga una visibilità internazionale anche nelle vetrine festivaliere europee. Per lo meno, il lavoro di Gomis e dei suoi collaboratori (tra cui si segnalano come co-sceneggiatori due attori francesi dall’identità complessa come quella del regista) ha fatto nascere un film stratificato e molto più originale di altri nella sua struttura e nella sua fattura.
© CultFrame 02/2017
TRAMA
Félicité è una cantante che si guadagna da vivere esibendosi in un piccolo bar di Kinshasa e con altri lavoretti ma è anche la madre di un ragazzo che ha cresciuto da sola: quando il figlio ha un incidente stradale e necessita di un’operazione molto costosa per la donna inizia un’odissea da cui sembra non esserci via d’uscita.
CREDITI
Titolo originale: Félicité / Regia: Alain Gomis / Sceneggiatura: Alain Gomis, Delphine Zingg, Olivier Loustau / Fotografia: Céline Bozon / Montaggio: Fabrice Rouaud, Alain Gomis / Musica: Anouk Khelifa (Kasai Allstars, Symphonic Orchestra di Kinshasa) / Interpreti: Véro Tshanda Beya, Papi Mpaka, Gaetan Claudia, i Kasai Allstars / Produzione: Andolfi, Granit Films, Cinekap / Francia, Senegal, Belgio, Germania, Libano, 2017 / Durata: 123 minuti