Muoversi nello spazio è principalmente un’esperienza. Viverlo, osservarlo, mettersi in relazione con esso non è necessariamente un riportare con presunta fedeltà quello che ci appare, non è solo pretendere di documentare. È anche ascoltare, è percepire sensazioni, provare emozioni e condividerle con chi quello stesso spazio lo frequenta o lo ha frequentato oppure potrebbe frequentarlo. O solo immaginarlo. La mostra personale dell’artista svizzera Irene Kung, allestita a Roma presso la Galleria Bonomo, è un ulteriore invito a confrontarci con questa riflessione.
Le opere esposte, fotografie per la maggior parte di considerevoli dimensioni, nascono dall’osservazione dello spazio urbano e dello spazio naturale in cui l’artista ama immergersi e abbandonarsi, ma gli ambienti da lei frequentati perdono le loro caratteristiche “reali” e, nelle sue immagini, diventano altro. Ciò che viene restituito all’osservatore sono paesaggi che vanno oltre il visibile, sono luoghi interiori, intimi. Gli elementi naturali e quelli architettonici sono trattati in egual modo: si liberano dalla loro materialità per assumere una plasticità nuova. Non rispecchiano più quelle forme familiari e rassicuranti che supponiamo di conoscere affidandoci con estrema sicurezza alla percezione dei nostri sensi, ma diventano evocative di qualcos’altro.
Una tendenza piuttosto diffusa, da cui sembra ancora piuttosto difficile distaccarsi, accetta a fatica che la fotografia possa allontanarsi eccessivamente dalla rappresentazione del reale così come ci appare. In questo caso siamo davanti a opere dove il mezzo fotografico diventa uno strumento con cui creare immagini al pari di un pennello. La pittura è parte fondamentale del percorso artistico di Irene Kung e i suoi influssi diventano un elemento caratterizzante che rende la sua cifra stilistica ben riconoscibile. I soggetti privilegiati sono alberi e monumenti, entrambi portatori di valori positivi, di sacralità e di fertilità, così come di cultura, memoria e tradizione di popoli, ma in realtà non è tanto importante che si tratti di un albero o di un’onda del mare, di Piazza di Spagna o del Taj Mahal. L’artista non ci vuol parlare di qualcosa di ben definito, non vuole descrivere un luogo o le attività che vi si svolgono, ma vuole condividere con l’osservatore l’emozione di un momento vissuto, vuol renderci partecipi del dialogo instaurato tra lei e lo spazio in cui si è mossa. La figura umana non è determinante in questo percorso emozionale, anzi è pressoché assente. Quando è presente è anch’essa sospesa in una dimensione irreale.
Quando si guardano le immagini è possibile percepire un atto di contemplazione che costituisce il presupposto della sua poetica ed è lì che va rintracciato il filo conduttore che lega tutte le opere dell’esposizione. La ricerca del momento ideale diventa determinante: può essere immediato o presupporre una lunga attesa, fino a quando non si creino le condizioni perfette a generare un sentimento. Pazienza nell’individuare il soggetto, attesa della luce più adatta: è un’evoluzione molto lenta quella che sta dietro alla creazione di queste immagini e non si conclude con lo scatto fotografico, ma continua anche dopo di esso. La post-produzione diventa, infatti, l’altro fulcro centrale di una ricerca estetizzante attraverso la quale l’artista crea le sue composizioni, fragili e delicate, che si stagliano su sfondi evanescenti o che da essi sono riassorbite. Difficile decifrare questo processo di apparizione o sparizione dei soggetti: le forme, ricondotte a una purezza essenziale, sono completamente decontestualizzate dall’ambiente reale originario e sono immerse in una materia priva di spazio e di tempo che però non è vuota, è ripulita accuratamente da tutto ciò che è inutile.
L’uso artificioso della luce elimina il rapporto con la realtà e ci immette in una dimensione di sospensione. L’annullamento del superfluo fa emergere l’emozione, non c’è nessun elemento di disturbo, nulla che distolga la nostra attenzione da ciò che, per l’artista, costituisce l’essenza; non c’è il traffico caotico della città, non c’è il chiacchiericcio dei turisti che affollano le piazze o il via vai dei visitatori che si accalcano nei luoghi di culto. Non ci sono nemmeno la campagna coltivata o i giardini ben curati, aree nelle quali potremmo aspettarci di trovare gli alberi rappresentati. È proprio la razionalizzazione dello spazio che circonda i soggetti scelti ciò da cui l’artista vuole prendere le distanze, il costruito, l’organizzato, l’innaturale. Con un’elaborazione estremamente accurata, l’autrice toglie tutto ciò che nella quotidianità costituisce una sovrastruttura intorno all’essenza. La materia indefinita in cui sono immersi gli elementi assume un valore pari agli elementi stessi. Tutto è pervaso da un’aura di misticismo che avvolge le forme e che evoca sonorità, luci, emozioni che sono messe in condivisione con i fruitori.
La sensazione di essere trasportati in uno spazio irreale è amplificata dall’allestimento: le immagini in mostra fluttuano negli ambienti espositivi, caratterizzati principalmente da un biancore diffuso, che per qualche attimo ci isola completamente dal mondo esterno.
© CultFrame – Punto di Svista 03/2017
INFORMAZIONI
Mostra: Irene Kung
Dal 15 marzo al 20 maggio 2017
Galleria Valentina Bonomo / Via del Portico d’Ottavia 13, Roma / Tel. 06.6832766: 338.6685522 / info@galleriabonomo.com
Orari: martedì – sabato 15.00 – 19.00 e su appuntamento / Ingresso libero
SUL WEB
Il sito di Irene Kung
Galleria Valentina Bonomo, Roma