Cosa può accumunare l’antropologia e la fotografia? In quale ambito si può sviluppare un dialogo profondo di rispettivo interesse? Esiste un territorio di indagine al cui interno convergono teorie e pratiche relative all’antropologia e alla fotografia e ai media visivi più in generale? La ricerca di due studiosi, Margaret Mead e Gregory Bateson (americana la prima, britannico il secondo), a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, spostò l’attenzione sull’uso della fotografia in campo antropologico: da testimonianza della realtà a rivelatrice di comportamenti umani.
La sostanziale differenza risiede nella capacità di considerare le immagini non tanto come copia o attestazione di una realtà ma come informazioni sulle alterità. Invece di utilizzare un’immagine fotografica come strumento per un’indagine, la si considerò essa stessa oggetto della ricerca. Da ciò prese avvio un percorso di studi denominato proprio Antropologia Visuale. Ed è a partire da questo orizzonte di osservazione che si sviluppa il saggio di Simona Galbiati Il mondo che non vedo, ciechi e fotografia, edito nel 2014 da Bonanno Editore, con una prefazione di Paolo Chiozzi e una postfazione di Mauro Marcantoni.
Il testo è impostato su due registri espressivi: uno caratterizzato dal rigore scientifico in cui viene svolta l’indagine; l’altro deriva dall’immersione totale, coinvolgente dell’autrice sia dal punto di vista fisico che psicologico nell’area progettuale da lei indagata. In effetti, questo campo di studi pone l’attenzione su tutti i sensi primari (non solo su quello visivo) che costituiscono gli strumenti della conoscenza con cui ci interroghiamo sul mondo che ci circonda. Un territorio di analisi dei linguaggi ampio e variegato che comprende ad esempio l’architettura o la danza, la pittura e il teatro o l’abbigliamento. Ciò a sancire che l’aspetto visuale è in realtà un’emanazione della nostra corporeità totale: ogni immagine che produciamo ci contiene, integralmente.
Un aspetto significante di questa relazione tra i sensi primari è stato già affrontato in un’altra riflessione intitolata Tra presenza e rappresentazione: lo studio sul nesso diretto tra tatto, vista e udito con il successivo perfezionamento evolutivo della rappresentazione. Bisogna però sottolineare come, questi importanti propositi, non abbiano ancora avuto uno sviluppo e un’integrazione significativa all’interno dell’antropologia visuale stessa. Pertanto, quella singolarità che potrebbe apparire come un controsenso per le nostre abitudini comuni, e cioè indagare i processi di empatia tra i ciechi e la fotografia, può generare altri punti di vista, diversificate e significative informazioni sul rapporto dei vedenti con la cecità, con la fotografia e sui limiti ipervisuali del nostro sguardo sul mondo.
Simona Galbiati con il suo lavoro sul campo ci offre una corposa e qualitativa mole di informazioni, non solo come ricercatrice intenta a restituire delle risposte scientifiche alle innumerevoli domande che scaturiscono da questo tipo di indagine, ma anche come individuo che percepisce e soffre, a proprie spese, le contraddizioni e le preesistenze culturali in cui siamo ingabbiati per quel che riguarda il mondo dei ciechi in generale e dei loro rapporti con la fotografia. L’autrice coinvolge un gruppo di non vedenti nelle sue ricerche, ognuno con la personale esperienza di cecità. Essa prende in esame diversi aspetti del loro rapporto diretto o indiretto con le immagini e l’immaginario dove queste prendono forma. Diverse le descrizioni prese in esame: dalla collocazione di immagini fotografiche nei luoghi dove vivono e che hanno valenza sensibile, avvertita di ricordi famigliari; alla produzione di fotografie anche a livello autoriale come il messicano Gerardo Nigenda, l’americana Alice Wingwall o lo sloveno Evgen Bavcar; o album di fotografie con la funzione di rielaborare, nel proprio immaginario, la loro stessa esistenza nel tempo. Nello studio sono presenti anche esempi di artisti che hanno affrontato questi temi: Sophie Calle attraverso il concetto di perdita o Javier Téllez sulla ricostruzione solida di un immaginario fisico dei non vedenti.
Tra i tanti argomenti affrontati ne emerge uno estremamente interessante che coinvolge più o meno inconsciamente ognuno di noi nella vita di tutti i giorni: quello della presenza. Una condizione permanente che per i vedenti si manifesta grazie alla vista mentre per i ciechi viene elaborato con l’udito, il tatto e l’olfatto. Questa differenza però si assottiglia, si riassorbe, considerando che non vi è una priorità qualitativa dell’una sull’altra nella percezione del mondo, ma una diversità. Mentre per i vedenti vi è un percepire l’ambiente, per i ciechi vi è un percepire essi stessi nell’ambiente. È il rapporto del nostro corpo con ciò che ci circonda a cambiare, non la qualità del rapporto stesso. Come sottolinea la ricercatrice messicana Carolina Britt Backman Sepúlveda in un brano riportato nel libro in questione (p. 167 ):
“affermare che i ciechi non sanno cosa ritraggono, come si usa una macchina fotografica o che le loro fotografie sono prive di senso è come voler annullare le loro capacità percettive, cognitive ed espressive”.
Scrive a sua volta Simona Galbiati:
“Considerare la fotografia come ponte presuppone che esista una separazione, presuppone che il mondo dei ciechi e il mondo dei vedenti siano separati da un fiume o da un vuoto. In realtà ciechi e vedenti convivono nello stesso mondo: non esistono due mondi! Forse allora è più appropriato considerare la fotografia come un luogo d’incontro, un crocevia dove le traiettorie temporali e spaziali di diverse persone s’intersecano in un punto: lo spazio-tempo del dialogo, del ri-conoscimento e della trasformazione.”
© CultFrame – Punto di Svista 04/2017
CREDITI DEL LIBRO
Titolo: Il mondo che non vedo, ciechi e fotografia / Autrice: Simona Galbiati / Prefazione: Paolo Chiozzi / Postfazione: Mauro Marcantoni / Editore: Bonanno Editore, Acireale-Roma, 2014 / 191 pagine / Prezzo: 18 euro / ISBN: 9788863180312
SUL WEB
Il sito di Simona Galbiati