Il volto di una donna che guarda un punto indefinito davanti a sé. Lo sguardo è inespressivo ed è rivolto verso il terreno. Capelli vaporosi, un vestito con decorazioni geometriche. Sullo sfondo si percepisce l’asettica e funzionale struttura di un ufficio qualunque, in quella che potrebbe essere una qualsiasi città dell’occidente capitalista. È un’immagine emblematica quella appena descritta che esprime, grazie a una sintesi assoluta e definitiva, allo stesso tempo una condizione individuale e un universo collettivo.
La figura dell’impiegata, costretta psicologicamente e fisicamente nella sua frustrante mansione e nella sua arida immagine, diviene così simbolo di un devastante straniamento individuale tipico di uno status sociale condiviso da milioni di persone nel mondo intero. Per la precisione, comunque, ci troviamo a Boston nel 1986 e riusciamo a percepire tale situazione grazie al sapiente obiettivo fotografico di Lee Friedlander.
Ciò che colpisce di questa inquadratura è principalmente la sua rigorosa compostezza formale, il suo equilibrio e la sua presunta oggettività. Certo, vediamo solo il volto di una donna, di un soggetto, ma proprio tale soggetto si configura come il racconto complessivo di un sistema di vita, di un modello di produzione e di profitto prevaricante ed asfissiante. In definitiva, oltre la patina descrittiva quest’opera fotografica cela un discorso molto più ampio e profondo che riguarda un intero ceto sociale (transnazionale).
E ancora: una figura femminile guarda verso il dispositivo ottico, alla sua sinistra, sopra un tavolaccio da lavoro, una montagna di terra ragrumata. Poi un secchio per terra e sullo sfondo un ambiente spoglio, quasi buio. Questa volta dalla condizione borghese impiegatizia, dalla rappresentazione della middle class statunitense, si passa a quella della classe operaia.
Un’addetta alla fabbricazione di mattoni (siamo nel 1983) si pone davanti allo sguardo del fotografo John Myers quasi senza difese, in modo semplice e diretto, collocandosi dentro il frame come un elemento inorganico dello spazio.
Alienazione? Sofferenza? Solitudine? Sfruttamento? Forse tutto ciò, insieme? Non posso affermare con certezza quale sensazione comunichi questa figura femminile che però, esattamente come l’impiegata immortalata da Friedlander si esprime simbolicamente con la forza raggelante della propria immagine, si autocomunica nel tentativo di far emergere con nitidezza la condizione interiore di un essere umano la cui esistenza, pur consumandosi nella fatica e forse nel dolore, non perde mai il tratto della dignità.
Ebbene, le due immagini che ho sopra descritto fanno parte della grande manifestazione che prenderà il via il 12 ottobre prossimo (fino al 19 novembre) denominata Biennale Foto/Industria, la Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro di Bologna dedicata quest’anno al tema Etica ed estetica al lavoro (Fondazione Mast).
L’evento, che si annuncia come estremamente interessante, è composto da ben quattordici diverse mostre collocate in altrettanti spazi espositivi della città, dalla Mast. Gallery al Museo Civico Archeologico, da Palazzo Boncompagni al MAMbo, fino alla Pinacoteca Nazionale.
Sarà l’occasione per poter vedere le opere di grandi artisti internazionali che si sono cimentati sul tema del lavoro industriale (e non), ognuno con il proprio stile e nell’ambito del proprio mondo espressivo.
Tra questi, i già citati Lee Friedlander e John Myers, ma anche il tedesco Thomas Ruff, il ceco Josef Koudelka, il giapponese Yukichi Watabe e l’italiano Mimmo Jodice.
CultFrame – Punto di Svista 10/2017
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)
INFORMAZIONI
Biennale Foto/Industria
Dal 12 ottobre al 19 novembre 2017
MAST, Bologna
Orario: martedì – domenica dalle 10.00 alle 19.00 / Ingresso libero
SUL WEB
Biennale Foto/Industria
Fondazione Mast