Presente a Roma nell’ambito della manifestazione Emerging Talents, con la mostra intitolata 21 22 23, Gidon Levin ha confermato un fenomeno ormai chiaro da alcuni anni a questa parte: ovvero la capacità di un piccolo paese come Israele di sfornare in continuazione talenti creativi, con particolare riferimento alle arti visive tecnologiche. Nel caso specifico ci troviamo nel campo della fotografia, pratica espressiva che l’autore israeliano ha sviluppato dopo i suoi studi presso la Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme, grazie a un’impostazione stilistica molto precisa e a un impianto contenutistico mai banale e prevedibile.
Le sue scelte formali sono essenziali, misurate, incentrate su un minimalismo visuale di straordinaria compostezza. Gidon Levin si concentra su una composizione apparentemente molto semplice, ma ogni parte della realtà inquadrata (dal paesaggio agli elementi materici) comunica in maniera diretta una connotazione metaforica ed evocativa. Da quelli che sembrano essere indumenti militari compressi in “sfere di tessuto” (Friends), alle misteriose tracce rosse collocate in ambienti notturni della serie Memiya, fino alle vetture collocate in spazi desertici e ricoperte da teli ruvidi (Diamonds), tutto nella sua architettura visiva sembra collocato in una dimensione di mezzo: tra oggettività e soggettività.
Ogni volta che ci si pone davanti a una sua immagine fotografica si percepisce una condizione di vuoto e sospensione del senso che allude, con tutta evidenza, a una potente riflessione interiore che l’autore ha saputo tradurre in immagini rispettando una concezione stilistica di grande rigore. Ma è possibile dire ancor di più. I lavori di Gidon Levin sembrano nascere da un forte principio estetico, non legato al concetto sterile di bellezza ma a quello più profondo di rielaborazione di un’esperienza di tipo personale.
Gran parte del suo lavoro affonda le radici nella storia esistenziale dell’artista, legata al periodo di servizio militare. L’autore si guarda bene dal rappresentare la guerra e l’orrore, non cade nello stereotipo della documentazione, non intende raccontare qualcosa di preciso. Nemmeno vuole comunicare dei significati universali. Le sue inquadrature sono allo stesso tempo nitide ed enigmatiche, precise e indecifrabili, evidenti e misteriose. In sostanza, non interpretabili secondo i canoni di uno scontato realismo.
Come già detto è l’esperienza che guida la creatività di Gidon Levin, esperienza intesa come fattore interiore costruito su una condizione non consolatoria (per un giovane) condivisa con altri individui. Così, la luce diffusa delle sue immagini, l’apparente rigidità delle composizioni, gli spazi arcani che visualizza, divengono gli strumenti che l’artista regala al fruitore per consentirgli di entrare in sintonia con il suo stato d’animo e la sua delicata sensibilità.
Anche quando la parola ‘guerra’ entra nel titolo di una sua serie (Beautiful War) non è possibile assistere a un’ovvia rappresentazione di un conflitto bellico. I muri sbrecciati dai colpi d’arma da fuoco e le strutture architettoniche grezze che fanno parte di questo lavoro sono elementi che si manifestano grazie a un provvidenziale distacco creativo.
La distanza (filosofica) e l’assenza di drammatizzazione e di psicologia sono fattori che esaltano all’ennesima potenza la profondità dell’opera di Gidon Levin, il quale si configura come un artista in grado di far pensare intensamente il fruitore senza guidarlo tirannicamente ma lasciandolo libero di immaginare. Ed è solo sul piano dell’immaginazione e del sentimento estetico che si genera dentro questo processo che chi guarda può comprendere pienamente l’universo espressivo, rigoroso e sincero, di Gidon Levin.
© CultFrame – Punto di Svista 12/2017
(pubblicato su L’Huffington Post Italia)
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Il sito di Gidon Levin