I premi fotografici? Una noia mortale

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis

Sony World Photography AwardQuesta ennesima riflessione sui premi fotografici internazionali scaturisce dalla visione delle immagini che si sono aggiudicate i riconoscimenti legati al Sony World Photography Awards 2018. Ne descrivo alcune a caso.

Un ambiente boschivo di rara bellezza con tanto di luce solare che penetra dall’alto (Early Autumn, di Veselin Atanasov, vincitore categoria Open Landscape & Nature), una signora molto anziana, e dal corpo curvo, anticipata dal suo cagnolino tenuto al guinzaglio (Old Friends di Manuel Armenis, vincitore categoria Open Street Photography), le fauci ributtanti di un coccodrillo (American Cocrodile di Lynn Wu, vincitore National Award Taiwan), due giovani seduti in un museo che guardano fuori da una finestra con accanto un enorme dipinto (Fusion of beauty di Katy Gomez Catalina, vincitore National Award Spagna), un pastore con le sue pecore (A Taste of Everything di Nuket Uluc, vincitore national Award Turchia).

E poi la ciliegina sulla torta, quanto di più scontato si possa immaginare in fotografia: un surfista che stringe la sua tavola ritratto in campo lungo e controluce, con onde marine sinuose che lo avvolgono (Waves of life di Sandaru Saranjava Urala Liyanage, vincitore del National Award Sri Lanka).

Insomma, un vero e proprio festival dell’ovvio, del già visto, del già fatto, del conformismo visivo, della piattezza espressiva.

Pochi improvvisi squarci di poesia (sostanzialmente due): il ritratto di una giovane donna mentre sfoglia le pagine una rivista (Turning, di Yusuke Suzuki, vincitore National Award Giappone) e, pur con una notevole tendenza estetizzante, l’immagine di una donna in bianco e nero molto agghindata ma capace di comunicare in modo chiaro il mistero del femminile (Victoria, di Jonatan Banista, vincitore National Award America Centrale).

Da questo excursus casuale nell’ambito del Sony World Photography Award 2018, si può evincere con una certa precisione, e una buona dose di scoramento, la condizione di certa fotografia contemporanea (senza prendere in considerazione quella relativa alla produzione di alcuni grandi artisti) incartata in stereotipi, luoghi comuni e conformismi visuali (nonché contenutistici), tecnicismi, stilemi scolastici e professionali che relegano il “fare fotografia” in un circuito vizioso di coazione a ripetere che non prevede concetti come poesia, estetica (in senso greco), stile personale, immaginazione.

Tutto sembra essere sempre uguale, ripetitivo, clonabile, iterazione molto superficiale. Ma forse è proprio la natura della fotografia a provocare tutto ciò, purtroppo.

Come, da sempre, sostengo si tratta della più difficile, complessa e rognosa forma d’arte visuale che si possa immaginare, poiché possiede un’articolazione sintattica estremamente limitata, molto povera, e non permette, di fatto, una reale edificazione di un discorso di tipo narrativo. All’opposto, a differenza della pittura (territorio espressivo estremamente libero), la sua presunta funzione di fredda replica della realtà tende a bloccarla inesorabilmente in un’iconicità sterile, modesta linguisticamente e filosoficamente.

Proprio per questi motivi, è necessario porsi nei riguardi della fotografia in modo totalmente libero, non convenzionale, indipendente dalle scuole e dalle mode, fuori dai generi. L’unica possibilità di vera espressione che la fotografia fornisce è quella che scaturisce dall’anarchia mentale del soggetto creativo, e per fortuna la storia di questa disciplina (ripeto, la più difficile di tutte) nel corso dei decenni ha generato casi di questo tipo.

Ebbene, se quest’ultima affermazione potrà magari essere sostanza di un altro articolo, voglio chiudere adesso ribadendo con un’affermazione che ho già fatto molte volte: i premi internazionali rappresentano per l’evoluzione della pratica fotografica e per i fotografi non un’opportunità, non un trampolino per spiccare il volo, ma un grande pericolo. Spingono, infatti, verso l’effetto esteriore, la spettacolarizzazione, la fruizione veloce, il conformismo espressivo, il qualunquismo comunicativo. Negano la riflessione, la dilatazione dello spazio-tempo, l’estetica, la memoria e la poesia. Dunque, la crescita della lingua fotografica è frenata ed è costretta a rimanere in un balbettio comunicativo fatto di regole molto precise.

La fotografia, così, invece di evolversi si deprime, invece di sviluppare tutte le sue potenzialità finisce per involversi paurosamente, finisce solo diventare pratica dilettantesca dell’ ovio e per produrre niente altro che una noia mortale.

© CultFrame 03/2018
(pubblicato su L’Huffington Post Italia il 23 marzo 2018)

SUL WEB
La Repubblica. I vincitori del Sony World Photography Award 2018
Sony World Photography Awards – Il sito

 

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Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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