Il panorama cinematografico internazionale propone in continuazione personaggi femminili che di volta in volta si ritrovano a sostenere questo o quel ruolo “decisivo”, a collaborare con registi più o meno “famosi”, a vincere premi in manifestazioni internazionali. Spesso, però, ciò che determina il successo di un’attrice (ma anche di un attore, ovviamente) non è tanto il suo reale valore artistico quanto piuttosto la capacità di manager, agenti, produzioni e cineasti di creare il personaggio (un tempo si chiamava star-system), di collocare la loro “assistita” in un territorio della comunicazione utile alla diffusione di un’immagine che il più delle volte è costruita sapientemente a tavolino. E nella migliore delle ipotesi queste interpreti si affidano (quando sono in grado) semplicemente a una forma di recitazione di tipo convenzionale.
Ebbene, questa pratica, che ha fatto la fortuna di molte attrici (e attori, lo ribadiamo) poco talentuose, non ha nulla a che vedere con la dimensione comunicativa di tipo poetico che solo taluni grandi personaggi del cinema contemporaneo possiedono. Si tratta di quell’attitudine indispensabile per trasformare la figura attoriale da presunto veicolo di significati in puro significante, in grado di autocomunicarsi al di là del prevedibile e insopportabile birignao dell’interpretazione cinematografica tradizionale.
Un esempio? Presto detto: Liv Ullman. Occasione per comprendere la grandezza di quest’artista ci sarà fornita dalla retrospettiva che il Bergamo Film Meetinggli riserverà nel marzo 2018. Un omaggio doveroso e significativo a un’attrice che ha legato il suo nome in maniera indissolubile a quello di Ingmar Bergman e che, analizzando le sue oltre cinquanta interpretazioni (a parte i film girati da regista), non è mai entrata in determinati meccanismi legati alla dimensione dello star-system.
Gli strumenti professionali di Liv Ullman di tipo classico, derivanti anche dalla lunghissima attività teatrale, sono evidenti e non possono essere messi in dubbio. Ma ciò che a mio avviso l’ha resa veramente una fuoriclasse nella storia del cinema contemporaneo è la potenza espressiva (nativa) del suo volto, la forza comunicativa tutta interiore della sua maschera, la sua naturale abilità nel porsi davanti alla macchina presa senza recitare ma solo facendo emergere il suo animo interpretativo, caratterizzato da un senso introspettivo di verità che va ben oltre il cinema. Ogni primo piano su Liv Ullman assume, dunque, un valore iconico che allude più al fotografico e al pittorico che al cinematografico.
Da La vergogna (1968) a Scene da un matrimonio (1972), da L’immagine allo specchio (1976) a Persona (1966), fino Sussurri e grida (1972), l’attrice norvegese ha spazzato via con disinvoltura e immediatezza la pesante artificiosità della tecnica teatrale-cinematografica per porsi solo con l’autentico vigore significante dello sguardo. Insomma, Liv Ullman è una grande attrice non perché sappia recitare (scolasticamente) ma perché possiede la capacità di collocare il suo sguardo in un territorio “altro” rispetto a quello dei codici della recitazione stessa.
Rivedere, dunque, al Bergamo Film Meeting i suoi film sarà un’opportunità per ripulire la nostra percezione della recitazione cinematografica inquinata da quei formalismi professionali utilizzati nella stragrande maggioranza delle interpretazioni del cinema di oggi, formalismi in grado di generare solo conformismo, banalità e piattezza espressiva.
© CultFrame 03/2018
INFORMAZIONI
Bergamo Film Meeting
Dal 10 al 18 marzo 2018
Sede operativa: Via Pignolo 123, Bergamo / Telefono: 035.363087 / info@bergamofilmmeeting.it