È in corso a Trieste fino al 15 aprile 2018 presso il Civico Museo d’Arte Orientale, la mostra dal titolo Peace is here! Fotografie di propaganda degli americani in Estremo Oriente. Le circa 1000 fotografie in mostra fanno parte del fondo USIS (United States Information Service) creato con lo scopo di divulgare gli ideali di vita americani, con un fine, dunque, dichiaratamente didattico e propagandistico, tramite pubblicazioni e mostre fotografiche – in quanto se ne coglie la funzione divulgatrice con cui raggiungere quegli strati della popolazione meno abbienti, quindi privi di radio – negli anni cruciali della Guerra fredda, in cui la contrapposizione tra le due potenze uscite vincitrici dalla Seconda guerra mondiale, Stati Uniti e Unione Sovietica, portò ben presto alla creazione di blocchi internazionali in aperta e reciproca ostilità. Diretta emanazione della dottrina Truman fu il Piano Marshall, un programma varato nel giugno del 1947, per offrire assistenza economica a quei Paesi europei usciti invece distrutti dalla guerra, tra questi anche l’Italia che, potendo beneficiare degli aiuti, nonché di numerosi altri fattori, tra cui la ampia disponibilità di manodopera a basso prezzo, avviò una fase di ricostruzione, crescita economica e tecnologica senza precedenti, meglio nota come il “miracolo economico”.
Fu grosso modo in questi anni, nella fattispecie tra il 1948 e il 1951 che la Sala di Lettura Americana di Trieste donò all’amministrazione comunale il Fondo USIS, oggetto di un poderoso intervento, tuttora in corso, di pulitura, catalogazione e digitalizzazione ad opera della Fototeca dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste, che attiva dal 1908, e ubicata al 3 piano di Palazzo Gopcevich, conta oggi circa 3 milioni di immagini fotografiche negative e positive di vari formati e tecniche, stampe tipografiche, cartoline postali, e immagini uniche come dagherrotipi, ambrotipi, e ferrotipi.
Proposte per la prima volta all’attenzione del pubblico, le 1000 foto in mostra, selezionate da Claudia Colecchia, curatrice nonché responsabile della Fototeca, appartengono alla serie Giappone e sono state realizzate tra il 1941 e il 1945.
War is over! Peace is here! Con queste parole si concluse la telecronaca di commento alla resa incondizionata del Giappone siglata il 2 settembre, di fronte a oltre 200 reporter e fotografi, sul ponte della corazzata Missouri, nella baia di Tokyo, dal generale Douglas MacArthur con i rappresentanti giapponesi; l’imperatore Hiroito non partecipò alla cerimonia in quanto non ritenuto responsabile della guerra.
Il generale MacArthur che governerà il Giappone fino all’aprile 1950, definito per questo il viceré del Giappone o il mikado bianco, conosce bene il potere dell’immagine a fini propagandistici dichiarando infatti che a fare la guerra nel Pacifico sono i soldati, ma anche i fotoreporter. Durante il percorso espositivo è facile evincere, come d’altronde non manca di far notare la Colecchia in una delle pagine del bel catalogo che accompagna la mostra, come non tutti gli eventi della guerra nel Pacifico siano stati rappresentati e che la guerra in Estremo Oriente sarà più “coperta” dai media a partire dal 1945, le campagne nelle Filippine, l’invasione di Iwo Jima e la battaglia di Okinawa sono persino sovrarappresentate – il generale MacArthur inviò 60 reporter per documentare le operazioni di sbarco nelle Filippine a Luzon. L’Us Army Signal Corps, il corpo militare incaricato della comunicazione, fondato nel 1863 durante la Guerra di secessione, è da sempre dotato di complesse apparecchiature ed è composto, negli anni della Seconda guerra mondiale, da 75 uomini, tra operatori cinematografici, tecnici del suono e fotografi, questi ultimi chiamati combat, perché seguono i soldati nei luoghi in cui si combatte, appunto, per mostrare ai cittadini americani la crudezza della guerra, nonché l’eroismo dei suoi soldati. Prevalgono infatti sul piano espressivo alcuni canoni, come la ripresa dei soggetti dal basso verso l’alto per accentuarne la monumentalità, l’attenzione alla simmetria, mentre è rara la sfocatura, particolare attenzione è dedicata poi alla rappresentazione dell’interazione pacifica tra i soldati e i civili, in particolare con i bambini. Dall’altro lato, si esibisce senza remore la morte del nemico, sulle pagine dei giornali americani si diffonde, in quegli anni, un aperto razzismo nei confronti dei giapponesi considerati una razza inferiore e descritti con termini assai poco lusinghieri come yellow monkeys, o yellow bastards.
Il percorso si snoda poi tra diverse icone della guerra nel Pacifico, gli istanti della resa giapponese, l’immagine di Nagasaki rasa al suolo dalla bomba atomica e non poteva mancare l’immagine nota ormai al grande pubblico, con il titolo Raising the Flag on Iwo Jima. La foto rappresenta cinque marine e un marinaio mentre issano la bandiera degli Stati Uniti sulla vetta del Monte Suribachi a Iwo Jima, una piccola isola vulcanica dove tra il febbraio e il marzo del 1945 ebbe luogo una delle battaglie più cruente combattute dagli americani contro il fanatismo militare nipponico. Scattata dal fotografo dell’Ap Joe Rosenthal, essa può a buon ragione definirsi un’immagine-icona, in quanto capace di assurgere a simbolo di un complesso di idee: la vittoria militare statunitense, il trionfo sul nemico, nonché incarnazione dell’ammirevole eroismo dei soldati americani al servizio della loro nazione. La foto, che valse a Rosenthal il Premio Pulitzer, è, com’è ormai noto, frutto di un’accurata messinscena: essa fu realizzata solo il quarto giorno dopo lo sbarco dei marine sull’isola, il 23 febbraio piuttosto che il 16 marzo dello stesso anno, giorno in cui Iwo Jima fu ufficialmente dichiarata sotto scacco dalle forze militari americane. Una data, quest’ultima, che avrebbe assunto un significato affatto diverso nella affabulazione degli eventi. L’immagine diventa subito il perno di una massiccia campagna di propaganda volta a raccogliere fondi per risanare i disastrosi bilanci della guerra.
Il 25 febbraio la foto comparve sulle prime pagine di tutti i quotidiani e tre degli uomini ritratti nella foto, Ira Hayes, Rene Gagnon e l’infermiere della marina John “Doc” Bradley – gli altri erano già morti – vennero richiamati in patria per dar vita a un tour negli stadi di tutto il Paese dove, davanti a migliaia di spettatori, dovettero scalare decine di volte una montagna posticcia e ripetere il glorioso gesto.
Come è stato detto, i vertici militari usarono questa fotografia per promuovere i valori del patriottismo e per rafforzare l’idea della giustezza della guerra; in questo programma di fabbricazione del consenso attinsero al repertorio dei simboli che per definizione sono di universale comprensione: tra questi c’è ovviamente la bandiera. Essa è un tòpos capace di veicolare messaggi precisi e inequivocabili nell’ambito di quella retorica visiva di cui la propaganda politica è, soprattutto nei periodi bellici, abile manipolatrice. E qui tocca aprire una necessaria parentisi aneddotica, l’istantanea di Rosenthal è preceduta da una prima foto di Louis R. Lowery che immortala il primo alzabandiera; accadde infatti che il Segretario alla Marina James Vincent Forrestal, osservando la scena dalla spiaggia, ordinò subito di rimpiazzare la bandiera con una seconda più grande e di issarla nuovamente, questa volta però ad assistere c’erano Rosenthal e il cineoperatore Bill Genaust. Ciò detto, è del tutto naturale ed inevitabile concludere che la bandiera rappresenta nell’immagine di Rosenthal il punctum, ovvero la “concrezione” visiva attorno alla quale si aggruma il senso dell’immagine, di fronte a questa foto è impossibile non posare lo sguardo sulla bandiera: essa svetta al centro dell’inquadratura a indicare che ha prevalso la vittoria sul nemico.
Dunque, in estrema sintesi, potremmo ragionevolmente affermare che la vittoria militare americana coincide con il successo mediatico di Raising the Flag on Iwo Jima. Inoltre, il mito che avvolge la genesi e la successiva propagazione di questa immagine immortale può aiutare a comprendere il destino cui va incontro un’immagine-simbolo nel momento in cui fa la sua apparizione nell’arena pubblica: viene sottoposta a un processo di massiccia e ubiqua riproduzione, viene fagocitata dall’immaginario collettivo, fino a diventarne parte integrante, questo perché la fotografia costituisce uno strumento assai efficace per ricordare e memorizzare un avvenimento e di questo, che ci appare come un assioma difficilmente contestabile, sono da sempre consapevoli le élite politiche che della fotografia, come degli altri media, si servono per plasmare le opinioni dei cittadini, l’identità della società tout-court. Si sa infatti come il linguaggio visivo permetta al pubblico un’identificazione immediata e come la retorica visiva sia in grado di insinuarsi in ciascuno di noi sollecitando un pensiero “cardiaco”, emotivo e irrazionale, che nulla ha a che vedere con la retorica verbale che coinvolge viceversa un pensare logico, discorsivo, eminentemente cerebrale. La diffusione di immagini in larga scala, per mezzo della Rete, di quotidiani, settimanali e periodici è un aspetto essenziale della vita pubblica, nonché uno strumento nelle mani delle élite politiche – in democrazia, come nelle dittature, in pace come in guerra – per mobilitare quel consenso che è necessario a legittimare programmi e processi decisionali.
Per ritornare alla nostra immagine, essa stimola un’ultima riflessione, il significato di una foto è storico e contingente in quanto ogni spettatore proietta su di essa valori che sono storici e culturali appunto. La significazione è quindi, salvo rare eccezioni, frutto di una costante e movimentata negoziazione col sapere del lettore. Ciononostante, esistono delle eccezioni e questo è il caso di Raising the Flag on Iwo Jima, che ha dimostrato di sapere “resistere” nel tempo alle deformazioni enunciazionali dei vari contesti in cui è stata e continua a esser citata, mantenendo intatto il suo nocciolo di significazione: essere icona di una guerra finita in trionfo e per questo strumento della propaganda bellica americana che se ne servì per rafforzare la fede nelle “magnifiche sorti e progressive” della nazione.
© CultFrame 03/2018
INFORMAZIONI
Peace is here! Fotografie di propaganda degli americani in Estremo Oriente / A cura di Claudia Colecchia
Civico Museo d’Arte Orientale
Palazzetto Leo / Via San Sebastiano 1, Trieste / tel. 040.3220736 / museoarteorientale@comune.trieste.it
Orario: martedì – giovedì 10.00 – 13.00 / venerdì e sabato 16.00 – 19.00 / domenica 10.00 – 19.00 / lunedì chiuso
Biglietto: Ingresso gratuito
SUL WEB
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Civico Museo d’Arte Orientale, Trieste