Come ci rivela Jacques Rancière, l’immagine è un’operazione che si costituisce a partire dalla relazione tra visibile e dicibile. E’ proponibile allora (come lo stesso filosofo indica) che un’immagine per un verso racconti e dall’altro rimanga muta. In questa direzione, in questa possibile dinamica, possiamo quindi osservare le opere fotografiche e scultoree di Roman Signer, esposte presso l’Istituto Svizzero di Roma in una mostra dal titolo Skulptur/Fotografie, a cura di Georgia Stellin.
Le operazioni che l’artista svizzero mette in campo hanno proprio questa caratteristica: raccontare un momento temporale, un accadimento, per poi rimanere mute nella loro qualità di oggetti inseparabili dalla propria forma, immanenti. Ciò che le opere/azioni raccontano è l’aspetto temporale, inserendo sullo stesso piano di senso tridimensionale anche una quarta dimensione: il tempo appunto.
In questo caso ci sembra interessante citare una frase di Werner Karl Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932 e uno dei fondatori della meccanica quantistica:
“noi dobbiamo ricordare che ciò che osserviamo non è la natura in se stessa ma la natura esposta ai nostri metodi di indagine”.
Da qui sorge spontanea una riflessione: poter affermare che ogni volta che cambiamo un metodo di indagine sul mondo cambierà anche il nostro punto di vista sulla natura che ci circonda. Ed è proprio all’interno di questo indissolubile intreccio di curiosità, gioco e sperimentazione che possono essere collocate la poetica e le opere di Roman Singer. Le caratteristiche principali delle sculture dell’artista scaturiscono all’interno del loro essere performative, nel loro agire nel tempo, nel loro accadere che trasforma gli oggetti in azioni. Queste hanno la prerogativa di essere delle esperienze che tutti possiamo attraversare, sono azioni non manufatti, mettendo in evidenza i gesti oltre alla fisicità dell’oggetto.
A prescindere dalle qualità organizzative e dalla fantasia immaginativa con cui sono realizzate le opere scultoree, quello che ci colpisce maggiormente sono alcuni aspetti che emergono delle fotografie esposte. Queste, in apparenza, sembrano avere una semplice e prevedibile funzione di testimonianza tra la situazione di partenza di un’oggetto e, attraverso un’azione che lo modifica, dello stato successivo all’azione a cui lo stesso è stato sottoposto.
Esemplificative, tra tutte, due immagini fotografiche, una accanto all’altra: su di una possiamo osservare un piccolo petardo posto su di una base; sull’altra rimane la sola traccia della sua esplosione. Se l’immagine, come sopra indicato, è un’operazione che si costituisce a partire dalla relazione tra visibile e dicibile, ecco che il medium fotografico ci appare nella sua più totale ambiguità. Vuole raccontarci ciò che non possiamo vedere: un passaggio, una trasformazione. Un’immagine parla anche di quello che ci è sottratto alla vista, ciò che è lontano nello spazio e nel tempo. Non solo: l’apparente ovvietà delle due immagini sopra descritte sposta, come in un gioco, l’utilità nell’assurdo e nell’imprevisto; al fuori gioco per eccellenza, opera un ricambio, un rimpasto tra visibile e dicibile. Ma l’immagine è anche muta e può essere un oggetto: per esempio una fotografia. All’interno di questo cortocircuito di questa vertigine di senso si fa corpo e sostanza, colpisce e stimola la poetica e la ricerca di Roman Singer.
© CultFrame 06/2018
INFORMAZIONI
Mostra: Roman Signer: Skulptur/Fotografie / A cura di: Georgia Stellin
Dal 23 marzo all’1 luglio 2018
Istituto Svizzero di Roma / Via Ludovisi 48, Roma / Tel: 06.420421 / roma@istitutosvizzero.it
Orario: mercoledì – venerdì 14.00 – 18.00 / sabato, domenica e festivi 11.00 – 18.00
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Istituto Svizzero di Roma